A cinque anni di distanza da Hierro, Gabe Ibáñez torna dietro la macchina da presa, coinvolgendo i suoi collaboratori di sempre, Alejandro Martínez alla direzione della fotografia, Eric Garcia al montaggio e un veterano come Zacarías M. de la Riva per le musiche originali.
Come per Hierro (recensito da questa parte su indie-eye cinema), Ibáñez costruisce un film dove il peso maggiore è rappresentato dall’ambientazione; all’elemento acquatico del precedente lavoro si sostituisce il deserto radioattivo e senza vita ai margini di un mondo ormai circondato dalla contaminazione. Le poche installazioni umane sopravvissute sono città immerse nel grigiore atmosferico, quasi sempre colpite da pioggie acide e infestate dagli ologrammi pubblicitari che si stagliano tra la skyline dei palazzi. A proteggere gli esseri umani, una squadra di automi prodotti seguendo due rigidi protocolli di Asimoviana memoria; il primo non consente ai robot di attaccare in qualsiasi modo l’uomo, il secondo inibisce qualsiasi tipo di alterazione del Kernel inserito nelle macchine, per opera delle stesse.
Quando un poliziotto scoprirà un automa intento a praticarsi un vero e proprio innesto chirurgico, l’indagine sull’origine della violazione sarà affidata a Jacq Vaucan (Antonio Banderas), un investigatore che lavora per la compagnia di assicurazioni incaricata di tutelare la relazione tra macchine e uomini.
All’origine di questa mutazione del Kernel forse si nasconde un “orologiaio”, un tecnico che si presume abbia l’intenzione di minare l’equilibrio esistente conducendo il mondo nel caos; Jacq Vaucan seguirà una traccia che lo condurrà nel deserto ai margini della zona proibita, una discarica che contiene relitti tecnologici dove le guardie hanno l’ordine di sparare a vista. Quello che Vaucan troverà sarà un processo di evoluzione delle intelligenze artificiali, prima di allora inimmaginabile.
Ibáñez costruisce l’immagine di una natura già tecnologizzata, insistendo sulle stratificazioni temporali e facendo quindi coesistere sistemi obsoleti con quelli cibernetici più evoluti; da una parte sembra interessato a recuperare le radici Hard Boiled di Blade Runner, ricostruendo alcune suggestioni visive molto vicine a quelle del film di Scott, a partire dalla fisiologia urbana in cui si muove Jacq Vaucan; rispetto a quel modello, la fotografia di Alejandro Martínez, come in Hierro, cerca la tonalità putrescente e desatura i colori per costruire una sinestesia tra l’idea del deserto e una sua rappresentazione visiva in senso estensivo, ovvero quella di una tecnologia ormai obsoleta e residuale, basata sulla conservazione di uno stato sociale e non sulla ricerca intesa come miglioramento.
Tra archeologia e futuro, come se fosse una versione disperata e più cupa di quella fantascienza vintage che ci fa sorridere (da UFO a Spazio 1999), infestata di monitor in bianco e nero, telescriventi, stampanti monocromatiche, e più in generale da una tecnologia già sepolta, sembra che Gabe Ibáñez sia interessato a lavorare sul valore tragico che può assumere l’innocenza amorale del dispositivo, rispetto alla capacità di mentire dell’uomo, tanto da sviluppare buona parte del film su questo contrasto, dall’automa utilizzato come schiavo sessuale alla formazione di un sentimento per emulazione da parte dei robot; in questo senso il rapporto di Vaucan con Cleo sfrutta questo scarto per costruire una dialettica che si riduce progressivamente al rapporto tra “figure nel paesaggio”, come in un western post-moderno, dove i residui dei generi (Noir, Hard Boiled, Western, Fantascienza) vengono assorbiti dal deserto, e i robot diventano l’emblema sacrificale di un mondo disumanizzato.
In questo senso, l’inerzia di “Automata” va di pari passo con la descrizione di una realtà ormai collassata su se stessa. Come nel caso di Hierro, sembra che Ibáñez abbia sufficiente talento per elaborare una drammaturgia astratta, basta pensare alla forza di alcune immagini che coinvolgono i robot, nella loro relazione con le maschere, simulacro indossato del volto umano e durante la formazione di un’identità; sia che si tratti di fluidi che simulano le lacrime o di volti di plastica abbandonati nel deserto, il regista spagnolo persegue un lirismo surreale per certi versi suggestivo e con una buona dose di ambiguità, ma che assimila tutto il film alla sua stessa superficie, confermando la sua difficoltà nel far interagire queste suggestioni con uno sguardo più acuminato, senza contare che gli esempi di Richard Stanley o del primo Neill Blomkamp, da cui Ibáñez desume estetica e poetica saccheggiando a piene mani, si erano già confrontati con gli stessi temi, con ben altri risultati.