La prima cosa che colpisce de La Doppia Ora è la sua assoluta estraneità ai canoni consueti del cinema italiano, cosa che in parte si spiega prendendo in considerazione il background artistico di Giuseppe Capotondi. Sebbene al suo primo lungometraggio, il regista collabora da anni alla realizzazione di videoclip per svariati gruppi rock internazionali: un retaggio che emerge prepotentemente nel taglio nervoso delle inquadrature, nel sapiente uso del montaggio, nella generale propensione al movimento. La vicinanza della pellicola a modelli prevalentemente stranieri è dunque evidente fin dal piano strettamente visivo. Ma un altro fattore, l’ottima sceneggiatura scritta a sei mani da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, gioca in questo senso un ruolo importantissimo. La vicenda narrata, infatti, è tranquillamente inseribile nel filone del noir, un genere ben poco frequentato dalle nostre parti.
Comincia come un incontro di solitudini La Doppia Ora, un timido avvicinamento fra due persone infelici, tormentate dal proprio passato, che sembrano trovare l’uno nell’altra la forza per voltare pagina. Ben presto però la trama si infittisce e un’atmosfera di terrore psicologico subentra ad avvolgere lo spettatore, trasportandolo in una dimensione a metà strada tra l’onirico e il reale. La storia assume i tratti di un puzzle sempre più complesso, un mosaico i cui numerosi tasselli torneranno al loro posto solo con il finale rivelatore. Sarebbe un errore raccontare altro: gran parte del fascino di questa pellicola risiede nella capacità di confondere tramite continui colpi di scena, mantenendo la tensione altissima fino all’ultimo minuto. Filippo Timi e Ksenia Rappoport si inseguono in un infinito gioco di sguardi, sullo sfondo di una Torino oscura come non mai; la recitazione si rivela sobria e mai sopra le righe, senza che per questo gli attori risultino opachi o fuori fuoco. Al di la dell’interpretazione, però, il merito di quest’opera risiede soprattutto nella qualità della scrittura e nella capacità del regista di dominare l’intreccio, valorizzando al meglio la sua trasposizione in immagini. Il risultato stupisce piacevolmente, dimostrando una maturità e una solidità non comuni per un’opera prima.