Bari International Film & TV Festival, 23-30 Gennaio 2010 – Film in concorso – Vincere di Marco Bellocchio
Difficile analizzare Vincere, al pari di molte altre pellicole di Bellocchio, senza tener conto della fascinazione subita dal regista verso le tematiche psicoanalitiche, evidente fin dagli anni settanta (Matti da slegare) e confermata dal sodalizio artistico con l’analista Massimo Fagioli durante gli ottanta. È proprio questa traccia che spinge il maestro a riaprire una delle pagine meno note del fascismo – il legame tra Mussolini, la presunta moglie Ida Dalser e il di loro figlio Benito Albino – per creare un’opera grandiosa che indaga i legami tra potere e verità, tra costrizione e pazzia. A seguito di un fugace incontro a Trieste, il direttore dell’Avanti! Benito Mussolini e Ida Dalser vivono una stagione di passione intensa e travolgente, un sentimento che spinge la donna a seguire senza riserve l’uomo che ama, arrivando a vendere tutto quel che possiede per finanziare un nuovo giornale da lui diretto, Il popolo d’Italia. Mussolini non sembra altrettanto coinvolto: determinato a seguire le proprie ambizioni, rinnegherà le originarie posizioni socialiste e anti-interventiste per prendere parte alla Prima Guerra Mondiale. Dopo la sua partenza Ida ne perderà le tracce, ritrovandolo già sposato con Rachele. Da quel momento tutti i tentativi di rientrare nella vita dell’uomo e di fargli riconoscere il figlio saranno vani, visto che Mussolini sembra intenzionato a cancellare ogni traccia della loro relazione. Divenuto Duce, di fronte all’ostinazione della donna la porrà sotto stretta sorveglianza e, infine, la farà rinchiudere in un ospedale psichiatrico. Il figlio Benito Albino, benché cresciuto a spese del regime, non sfuggirà al proprio destino familiare e a sua volta morirà pazzo in manicomio. Realtà storica e analisi psicologica si intrecciano indissolubilmente. Già la volontà di Mussolini sembra guidata da un irrisolto complesso d’inferiorità (“… da giovane avrei voluto fare il musicista o lo scrittore, ma poi mi accorsi che sarei stato irrimediabilmente un mediocre… non sarò mai contento io, devo salire ancora più in alto, sento di avere il dovere di essere diverso da tutti coloro che accettano la propria mediocrità…”), un’ossessione che finirà per travolgere un’intera nazione. Giovanna Mezzogiorno, come sempre, si dimostra intensa e passionale: la sua Ida Dalser, internata perché si ostina a gridare al mondo come stanno le cose, sembra suggerirci che parole come verità, giustizia, follia, non godono di significati oggettivi; sono anch’esse emanazione di un potere assoluto, che può intervenire sulla semantica e riscrivere a proprio piacimento la realtà. Quando tutti intorno sembrano contagiati dalla follia, coloro che si ostinano a mostrarsi sani costituiscono inevitabilmente l’anomalia da cancellare. Proprio per questo lo psichiatra che visita la Dalser in manicomio la invita ad un atteggiamento prudente (“Lei sbaglia gridando continuamente la verità. È il tempo di tacere, di recitare una parte”), pur riconoscendo l’iniquità della situazione in cui versa la donna. Ineccepibile il lavoro del regista sul piano visivo: attingendo a immagini di repertorio, Bellocchio crea una continua sovrapposizione tra finzione e realtà; tra la figura di Mussolini in bianco e nero, che campeggia nei filmati dell’istituto luce, e quella a colori, che prende vita dallo sguardo torvo di Filippo Timi. Un gioco di specchi che ha il suo apice nel confronto tra il discorso del duce in Piazza Venezia e l’imitazione che ne fa il giovane Benito Albino, ormai irrimediabilmente squilibrato, su richiesta dei compagni d’istituto. Sequenza che ha provocato in sala una certa ilarità ma che, a dire la verità, non ha nulla di comico.