Il finlandese Jalmari Helander ci riprova a frugare nell’immaginario dei blockbuster americani tra ottanta e novanta e dopo Rare Exports, che sovrapponeva il folclore nordico con i Bad Santa della tradizione horror statunitense vira dalle parti dell’action, già presente in alcuni momenti del film precedente. Big Game mantiene la stessa wilderness naturale per calarci dentro tutti gli elementi già visti in film come Con Air, Air Force one e in modo indiretto Commando, Predator e la serie Die Hard.
A questi aggiunge lo spirito dei racconti di formazione mettendo al centro ancora una volta un ragazzino che deve affrontare una sfida più grande di lui come rito di passaggio verso l’età adulta, tanto che a differenza degli action claustrofobici e ambientati all’interno di spazi circoscritti, siano essi aerei o trappole di cristallo, Helander preferisce la foresta e l’espansione ottica, anche in termini di focali utilizzate, per sottoporre le sequenze più concitate ad una continua mutazione a vista dello spazio.
Quando il presidente degli Stati Uniti (Samuel L. Jackson), ormai affidatosi al piccolo Oskari (Onni Tommila) per superare le insidie dell’ambiente naturale dopo la distruzione dell’aereo governativo, rotola insieme al ragazzino dentro un grosso congelatore lanciato per i dirupi della montagna, Helander mostra il cuore del suo cinema come un rollercoaster estremo dove tutto è possibile, inclusi i riferimenti diretti, tra cui la capsula di salvataggio equipaggiata con paracadute ripresa direttamente da Air Force One e Samuel Jackson senza una scarpa, esattamente come Bruce Willis in Die Hard.
Rimane il dubbio che questi elementi facciano parte di un congegno divertente ma con un surplus di retorica nostalgica che non riesce a far reagire due o più mitologie in una dimensione nuova; e onestamente il post-moderno di ritorno è quanto di più accademico ci sia rispetto ad un cinema che se ne fotteva dei mausolei culturali, mandandoli in frantumi.