Originariamente, Big Hero 6 è una miniserie della Marvel ideata da Steven T. Seagle e Duncan Rouleau e che è apparsa e scomparsa alla fine degli anni novanta per poi riaffacciarsi brevemente sul mercato dieci anni dopo, in una versione arricchita ma sempre concepita per il formato miniserie.
La Disney ne acquisisce i diritti per realizzare il primo film basato sull’immaginario Marvel ad essere interamente prodotto dai noti studios di animazione, facendo quindi un passo ulteriore verso quella contaminazione creativa che a partire dal 2009 si era configurata come un’acquisizione del marchio e di un intero “database” di nuovi personaggi.
A differenza dello scambio inventivo presente ne “I Guardiani della Galassia“, Big Hero 6 diluisce il mondo Marvel in quello Disney di nuova generazione, mitigando le caratteristiche più violente del fumetto e portando tutto dalla parte di un racconto di formazione sul senso della perdita, legato anche al modo in cui la Pixar di Lasseter ha osservato il mondo dell’infanzia attraverso alcuni titoli.
Dal fumetto originale Don Hall e Chris Williams riprendono l’ambientazione nell’immaginaria San Fransokyo e alcune caratteristiche ispirate ai manga giapponesi (Astroboy, Tekkaman, i Cavalieri dello Zodiaco), anche in questo caso molto meno marcate rispetto ai disegni e privilegiando l’idea di un gioioso meltin’ pot attraverso la rappresentazione di una società multirazziale.
Dal punto di vista del ritmo e dell’invenzione cinematica, siamo più dalle parti della computer graphic di Bolt e dell’universo Pixar che dialoga con l’inanimato e il “merchandising”, ipertrofia cinefila inclusa.
Hiro è un quattordicenne orfano che vive insieme al fratello maggiore, Tadashi, in casa della zia Cass, proprietaria di un ristorante. Entrambi appassionati di robotica e tecnologia, vivono la mancanza di una guida educativa in modo diverso, mentre Tadashi studia all’istituto di tecnologia della città investendo tempo e studi per una causa utile, il giovane Hiro sfrutta talento e inventiva per costruire piccoli prototipi concepiti per partecipare agli scontri illegali tra robot, attraverso i quali il ragazzetto riesce a racimolare un bel gruzzolo. Sarà il fratello che lo toglierà dalla strada, convincendolo gradatamente a impiegare la sua genialità per qualcosa di utile e costruttivo, introducendolo così all’università tecnologica, nonostante la sua giovane età. In quel contesto, Hiro rimane abbacinato dalle potenzialità creative del team e idea una serie di robot miniaturizzati, i microbot, controllabili attraverso una cuffia neuronale. I microbot rappresentano una connessione vera e propria tra il desiderio creativo e le possibilità tecnologiche, perché il loro unico limite, come racconta Hiro ad una platea mesmerizzata, è la fantasia. Quando un incendio distruggerà il centro di ricerche e il fratello di Hiro morirà accidentalmente, il ragazzino cadrà in una profonda depressione emotiva. Sarà proprio da questo momento in poi che incontrerà Beymax, un robot progettato da Tadashi come assistente sanitario cibernetico, goffo pallone gonfiato ad aria, programmato per risolvere qualsiasi emergenza medica e con un aspetto rassicurante come quello di un “marshmallow”. Quando Hiro scoprirà che i suoi microbot invece di esser stati distrutti dall’incendio, sono stati rubati da un losco figuro che indossa una minacciosa maschera Kabuki, comprenderà che la morte del fratello non è stata del tutto accidentale. Divorato da un sentimento di vendetta, si farà aiutare dagli amici del centro per allestire un vero e proprio team di super eroi allo scopo di trovare la verità.
Su questi elementi, Hall e Williams, sviluppano un racconto di formazione vero e proprio, adattando la filosofia Marvel degli eroi con grandi poteri e grandi responsabilità nel contesto del cinema d’animazione per ragazzi, arrivando a trasformare secondo questa linea alcune idee desunte dal rapporto tra Terminator e John Connor, ma anche tra Nobita Nobi e Doraemon, per la relazione che si sviluppa tra l’universo di una cameretta e lo spazio apolide della città, con dinamiche molto simili.
Il risultato è sorprendente perché Big Hero 6 analizza in modo progressivo le conseguenze del distacco, rendendole comprensibili per il pubblico di riferimento, con una grande capacità di lavorare non solo sulle figure affettive principali ma anche su quelle surrogali, come testimonianza di un passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Beymax diventa il personaggio nodale, non solo per l’efficace semplicità che assimila nel corpo morbido di un pupazzo svariate caratteristiche: ruolo protettivo, rassicurante goffaggine slapstick e grandi capacità razionali, ma anche per il modo in cui la sua incapacità strutturale di comprendere il dolore della perdita conduca Hiro alla comprensione del valore della conoscenza come eredità che tiene in vita le persone nel tempo, un percorso nient’affatto banale se si pensa al target di riferimento e al modo in cui ci si arriva, quasi didatticamente, attraverso una serie di vorticosi slittamenti di senso, quelli del miglior cinema d’animazione e d’intrattenimento (ancora) possibile, completamente in controtendenza con la consueta melassa natalizia.