sabato, Novembre 16, 2024

Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza) di Alejandro González Iñárritu: la recensione

Prima ancora di cominciare le riprese di Birdman, racconta Iñárritu, qualsiasi movimento di macchina e tutto il percorso degli attori, è stato coreografato in modo meticoloso; nessuno spazio per l’improvvisazione, ma al contrario uno studio sul tempo della sequenza determinato con la precisione di un orologio. Una vera e propria mappatura di tutti i segmenti che costituiscono il film, collegati tra di loro con un “trucco” che ripete in versione digitale i neri di Hitchcock per “Rope”; scelta non del tutto comprensibile e quasi archeologica, se si pensa alle intenzioni del regista messicano di concepire un’esperienza di vita continua, non troppo distante da quella di un reality o di un percorso di simulazione videoludica, in entrambi i casi immersioni che avrebbero potuto mettere a dura prova i confini temporali del racconto.

Al contrario,  Il digitale interessa ad Iñárritu per applicare una sutura adatta a tenere insieme un disegno performativo antecedente alle immagini, una soggettiva dove ogni ostacolo tra i corpi e la macchina da presa viene rimosso e riprodotto come se la musica di Max Roach invece di accadere in un tempo effimero senza lasciar tracce, si fosse agganciata alla nozione più statica di “processo”. Roach ci è venuto in mente seguendo una suggestione non del tutto casuale, legata al drumming di Antonio Sanchez, le cui poliritmie costituiscono la parte più importante della colonna sonora di Birdman, uno dei tanti riferimenti “freeform” presenti nel film e che includono gli assoli linguistici di Raymond Carver, l’animazione tra segno e idea di Saul Bass (i titoli di testa e quelli di coda) e un territorio approntato per sciorinare pezzi di bravura.

Non siamo noi a dirlo, è lo stesso Iñárritu che parla di dialoghi sincronizzati con precisione sui movimenti di macchina, come a definire la natura intuitiva di questi segmenti in base ad un processo strutturale falsificante che li mina alla base. In questo senso il film del cineasta messicano non è così diverso dalla coralità orchestrata di Babel, una diacronia già sistemata sincronicamente e che ci ha fatto pensare al formulario cinematografico di Charlie Kaufman. Rispetto ai florilegi barocchi di Synecdoche, Birdman sceglie una strada apparentemente più fisica, ma è appunto un trucco di prestigio, un percorso di simulazione tutto mentale che non può consentire alcuna libertà dello sguardo.

Altra cosa dal viaggio verticale di Alfonso Cuaron, le cui stazioni venivano continuamente disintegrate in una progressiva distruzione degli schermi. E cosa è in fondo, quel fuori campo completamente cieco, indicato dagli occhi spalancati di Emma Stone se non una cornice opaca che illude senza la luce di un riflesso?

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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