Ciò che semplicemente mette in scena Mike Binder con Black or White è l’eterno dibattito sul razzismo. Un tema che nella cinematografia statunitense ritorna ridondante, pletorico, e che spesso rasenta l’inevitabile banalizzazione. Un modo, questo, per fare i conti con le colpe del passato, per riflettere sui problemi sociali e culturali che ancora affliggono la nazione.
Black or White è quindi un film che si tinge di bianco e di nero e si perde nelle sfumature. Ripropone l’annoso conflitto, propina gli stessi quesiti per poi lasciarli aperti, invariati, come fossero realmente irrisolvibile e impenetrabili, perché privi di una qualsiasi definizione, di qualsiasi logica, di qualsiasi senso.
Il dramma intimo (seppure ricco incursioni comiche) lascia il posto ad intrichi narrativi che si snodano nell’aula di un tribunale: luogo che diventa locus, spazio concettuale che racchiude l’ideale perimetro neutrale, il confine entro cui si genera l’inevitabile confronto/scontro tra le parti, sotto il controllo di un presunto emblema di imparzialità. Ma il conflitto non è solo quello incarnato dalla piccola Eloise, nipotina bi-razziale del prestigioso avvocato Elliott Anderson (Kevin Costner), il cui affidamento è conteso tra la famiglia bianca e quella nera. Il conflitto si genera invece su più livelli, partendo proprio dal dolore per la perdita, i rimorsi del passato e la paura del futuro; il conflitto è prima di tutto quello inconscio. La dipendenza dall’alcol da parte dell’avvocato diventa così metafora di quell’impossibilità di distacco da un pregiudizio ormai attecchito nel profondo, tra radici culturali e razziali fuorvianti ed istiganti un unico, comune, sentimento per entrambe le fazioni: l’odio.
Il padre di Eloise (un bravissimo André Holland), sotto l’autoritaria guida della madre Rowena (Octavia Spencer), riemergerà da un passato oscuro, pretendendo l’affidamento della figlia e allo stesso tempo una rivalsa sociale, un diritto d’esistenza privatogli da un percorso di vita burrascoso: forse anche lui stesso vittima di un’emarginazione razziale che lo ha ridotto allo stereotipo di “negro di strada”. La bambina diventa così la causa scatenante, l’elemento comune e accomunante, punto mediale, melting pot armonioso e incorrotto che sprona entrambe le fazioni a prendersi carico delle proprie responsabilità e a superare le proprie barriere socio-culturali. È il suo silente intervento sospinto dall’amore che permetterà al nonno di superare la sua dipendenza dall’alcol e al padre di affrontare i propri doveri morali e disintossicarsi dalla droga.
L’insensata distinzione razziale viene in questo modo espressa attraverso l’equazione alcol : bianco = droga : nero. Il cui risultato sembra portare alla logica uguaglianza tra le parti, ad un’interscambiabilità di colpe e responsabilità. La verità è nel mezzo, e nella fusione genetica tra le razze, in Eloise, sembra trovare dimora la risoluzione ultima a questa guerra infinita.