Dopo l’immeritato licenziamento, il capitano di sommergibili, Robinon (Jude Law), decide di riscattarsi con un’impresa eccezionale ma rischiosa: recuperare un carico d’oro rimasto in un sommergibile tedesco che giace sul fondo del Mar Nero dai tempi della guerra. La ciurma che il capitano metterà in piedi sarà inevitabilmente composta da dodici abili professionisti rinnegati dalla marina: metà americani e metà russi. Ma, nel progressivo avvicinamento al tesoro sommerso, l’avidità degli uomini prenderà sempre più il sopravvento, generando un massacro all’interno del sottomarino, fino all’inaspettato epilogo.
Ci sembra da subito chiaro come quello adottato da Macdonald sia un abile espediente per mettere in scena, attraverso questi personaggi disperati e disparati, l’Uomo nella sua forma più autentica e inconfessabile. Personaggi che incarnano gli aspetti più laidi dell’animo umano con tutte le sfumature del caso, tutti, immancabilmente, biechi e prevaricatori. È un film che racconta l’uomo nel suo processo speculativo e speculare; l’uomo che indaga se stesso, fino a spingersi oltre i limiti conosciuti per poi sondare i meandri più oscuri della propria coscienza.
In Black Sea lo spazio conchiuso (quasi tutto il film si svolge negli spazi limitati e asfissianti del sottomarino) perde la prerogativa sicuritaria. Claustrofilia e claustrofobia si confondono in questo luogo concentrazionario che diventa zona limitante e liminare, guscio preservante ma che condanna ad una precaria esistenza, sospesa tra l’aria e l’acqua, tra la vita e la morte, tra il riscatto e il fallimento. Ma “la sporca dozzina” di questa storia si compone soprattutto di uomini che si alternano nel ruolo di carnefici e vittime, e che nel tentativo di prevaricazione finiscono col divorare, annientare, se stessi.
Una soluzione narratologica che ricorda L’angelo sterminatore di Bunuel o il più prosaico ma altrettanto eloquente I Prigionieri dell’Oceano di Alfred Hitchcock. E come in quest’ultimo, anche nel film di Macdonald lo spazio circoscritto funge da pretesto per mettere in scena brutalmente le conseguenze dell’assurda retorica dell’ideologismo e le infime logiche della faziosità che sfocia in pregiudizi e disumanità autodistruttiva. Il riferimento ai disastri della guerra è appena accennato ma resta tangibile, vivido nelle espressioni bestiali degli uomini intrappolati in una gabbia di metallo e di pregiudizi. Il richiamo all’avventura proviene, di fatto, proprio dalla voce seducente di quel bottino di sonanti lingotti d’oro che (nel falso storico della trama) accrebbe lo scontro tra la Russia e la Germania durante la Seconda Guerra Mondiale.
È la corsa all’oro moderna. Come se l’essere umano, dopo aver esplorato e battuto ogni centimetro della superficie terrestre, volesse spingersi verso le due altre frontiere, quelle dello spazio infinito e degli oscuri fondali marini: dimensioni insondabili e che spesso coincidono; dimensioni che inevitabilmente convergono nella terza incommensurabile estensione, quella dell’animo umano. Ma l’energia propulsiva resta sempre la stessa, l’atavica pulsione che ribolle come il catrame che insudicia la carena: è la bramosia, l’insaziabile sete di denaro.
Il grasso dei motori, la ruggine delle lamiere, la forza corrosiva delle acque, gli ambienti bui e sudici, la sbobba immangiabile: tutto concorre a scandire la progressiva emersione dell’identità corrotta, che coincide non a caso con la relativa controparte: l’inabissamento del sottomarino rugginoso e fatiscente. Da navigato documentarista, Macdonald fodera il suo film di una patina estremamente realista, un’estrema ricercatezza nel dettaglio che dona all’opera un’inaspettata liricità, fino a proiettarci in un’avventura ricca di pathos e colpi di scena.