lunedì, Dicembre 23, 2024

Blackhat di Michael Mann: la recensione

In una recente intervista rilasciata per Wired in occasione dell’uscita di Blackhat negli states, Michael Mann ha confrontato i risultati dell’esperienza videoludica con quella degli hacker Black hat; mentre la prima accade nel dominio di uno spaziotempo digitale contratto e “fantastico”, la seconda impatta violentemente nel mondo “fisico”.
Le occorrenze che hanno stimolato la ricerca del cineasta americano sono quelle della vicenda Stuxnet, il worm inoculato dalla National Security Agency in collaborazione con l’intelligence Israeliana e che ha danneggiato la centrale nucleare Iraniana di Natanz, assumendo il controllo della centrifuga e deteriorandone le funzioni nel corso di un anno, fino a distruggerla.
Per definire questo lento lavoro del worm, che oltre alla produzione dei danni effettivi, ha agito in parallelo inviando informazioni contraffatte e rassicuranti ai terminali Iraniani, Mann ha utilizzato l’espressione “invisibile esoscheletro di dati“, descrivendo quindi un ambiente in cui siamo completamente immersi e che connette tutto a qualsiasi cosa: “il primo vero elemento tecnologico che ha cambiato il modo in cui sperimentiamo le nostre vite, con una portata democratica simile a quella dell’invenzione della stampa“.

Se si esamina attentamente il senso delle parole di Mann, tenendo al centro il confronto tra gaming e hacking Black hat, nel transito tra fantasia e spazio fisico, dovrebbe esser chiaro quanto il suo interesse relativo all’impatto dell’ICT sulla vita urbana, superi quell’opposizione binaria che ha collocato su due sponde separate spazi virtuali e luoghi reali a partire dalle prime riflessioni sui new media della fine degli anni novanta, che per lungo tempo hanno veicolato una lettura contrapposta dei due mondi, descrivendo il cyberspace come agente di una progressiva disgregazione della città materiale nella sua ricombinazione digitale.

Basta recuperare alcuni testi (seminali) di William John Thomas Mitchell, Paul Virilio, Kevin Robins, per capire come è arrivata sino a noi, in termini fenomenologici, ermeneutici e politici l’architettura concettuale alla base della relazione tra città e ICT, dicotomia che colloca da una parte lo spazio astratto e dall’altra quei luoghi vissuti, lentamente derealizzati e sostituiti da una semantica del vuoto. È l’opposizione tra locale e globale che implica un conflitto tra immaterialità e autenticità quella di cui parla Virilio in “Open Sky”, oppure è il contrasto tra luogo radicato e concreto, rispetto alla fluttazione astratta e veloce dell’informazione nel cyberspace.

Una lettura binaria di questo tipo, riproposta oggi, è monodimensionale e anacronistica e non tiene conto della complessità spaziotemporale che attraversa tutte le interazioni mediate sperimentate ogni giorno nello spazio urbano, dove la relazione tra digitale e fisico può essere compresa solo attraverso la stratificazione o l’incorporamento e non certamente con dinamiche legate alla sostituzione; Michael Mann ne è consapevole da prima di Blackhat, film che rappresenta l’evoluzione combinatoria tra tessuto architettonico urbano, corpo e ICT e che include non solo lo sguardo sulla città attraverso la sua filmografia, ma anche quello sul digitale, tra luce, immagine e dispositivo. “Adesso possiamo muoverci con maggiore agilità attraverso i confini dei cosiddetti stati-nazione” ha raccontato Mann per spiegare la performatività complessa che muove Hathaway e Lien in Blackhat “possiamo diventare cittadini del mondo, un aspetto difficile venti anni fa e inconcepibile cento anni prima. Tutto questo fa apparire John Dillinger come un uomo della preistoria

L’interconnessione tra dati e spazio fisico, per Mann evidenzia la contrazione estrema dei confini mondani e Blackhat ci conduce in una dimensione radicalmente eterotopa, un luogo di transito che sovverte la priorità di un mondo sull’altro senza soluzione di continuità.

Mann sposta Hathaway dalla prigione ad una rampa di lancio, in una sequenza dove lo spazio aperto diventa condizione di forte spaesamento; allo stesso tempo il viaggio dei dati indirizzato verso un firewall ha una consistenza quasi “elettrica”, un’astrazione cognitiva ma che non è tale nell’architettura di un mainframe, riproposta in seguito attraverso i riflessi video-pittorici dei LED urbani o tra i volumi architettonici di cemento, teatro di alcuni conflitti a fuoco, che con un procedimento inverso a quello utilizzato da Franco Recchia per costruire le sue planimetrie urbane fatte di componentistica informatica, si stagliano come polimeri di silicio attraverso una reinvenzione delle prospettive espressioniste “noir” nella dimensione post-globale; basta pensare al rapporto tra orizzonte e margine, lo stesso che dal ciglio della strada evidenziava la città come spazio morfologicamente mostruoso nel seminale Plastic City di Nelson Yu Lik Wai.

Ma se la metafisica dei dati viene tradotta nella forma di un diodo ad emissione luminosa oppure nella consistenza volumetrica dell’architettura, il mondo “vissuto” diventa luogo di convergenza tra materia e antimateria, basta pensare alla sequenza della parata a Jakarta, dove uno scontro fisicissimo di corpi e sangue attraversa il diaframma frattale costituito dalla massa dei partecipanti.

Mann li inquadra come se fossero un filtro trasparente, con Hathaway/ghostman che ci passa quasi attraverso mentre cerca di avvicinarsi a Sdksdk. Del resto, lo stesso Sdksdk reclamerà un confronto concreto mentre Hathaway e Lien si muoveranno tra dati e spazio fisico, cambiandone la morfologia e con il deserto che a un certo punto sembra rappresentare la coesistenza di due orizzonti negativi, vuoto semantico vissuto e immateriale.

La forza destabilizzante di Blackhat risiede allora nella complessa coesistenza di un contesto politico autoritario e distopico con l’emergere inarrestabile di una realtà possibile ed eterotopa; l’interesse che Mann dimostra nei confronti della vicenda Stuxnet dischiude una lettura stratificata che si dibatte tra NSA e Blackhat, potere e dissoluzione di tutti i confini conosciuti (geografici, mentali, morfologici, antropologici) in quella risemantizzazione reciproca che proibizionismo e antiproibizionismo operano mediante la stessa tecnologia.

Il cyberspace per Mann non è un mondo semplicemente “immateriale”, ma parte di un tessuto complesso che si manifesta attraverso continue risemantizzazioni e passaggi; non è un caso che la città di Blackhat faccia coesistere la mutazione dei network elettrici attraverso la luce dei LED che definisce lo spazio di Hong Kong, con un flusso di dati ormai “vivo” e intelligente, che non ha più niente a che vedere con i dispositivi di registrazione delle informazioni, semplicemente perché il suo rapporto con la realtà fisica (merce, denaro, elementi materiali, macrocomputers, centrali nucleari) è definito attraverso dinamiche distruttive o ri-costruttive; i dati plasmano lo spazio.

Ecco allora il digitale di Blackhat, bistrattato e bollato come “brutto” da una critica disinteressata al linguaggio e abbacinata da chirurgie estetizzanti; per girare il film Mann ha utilizzato delle Arri Alexa, le stesse impiegate da Fincher per Gone Girl e da Innaritu per Birdman; il risultato, come negli ultimi film del regista americano, è quello di non “truccare” il modo in cui i dispositivi catturano la luce, con una restituzione dell’immagine il più possibile aderente all’aura luminosa delle grandi megalopoli; anche da questo punto di vista l’occhio digitale è di volta in volta quello dei dispositivi che mediano tra spazio fisico e spazio digitalizzato; non è solo una questione di luci e colore ma anche una dimensione tattile che promana da quella simulativa e viceversa, basta pensare al movimento continuo delle Arri ma anche alla prospettiva di alcuni conflitti a fuoco, tra moorpg in soggettiva e shoot em’up, distanza scopica e improvvisa vicinanza fisica.

Anche da questo punto di vista Mann comprende perfettamente il limen terrifico e possibile tra ICT e la sua spazializzazione nel corpo della città, un intreccio promiscuo tra immediato e mediato, tangibile e liquido, aptico e virtuale.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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