La combinazione tra il racconto di formazione più crudo e le figure della mitologia è presente sin dai primi cortometraggi dell’attrice e regista svizzera Lisa Brühlmann. Il corpo femminile e le sue mutazioni nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta è al centro di un corto come Hylas And The Nymphs e di questo primo lungometraggio, Blue My Mind. I due titoli condividono l’accezione “fisica” più che allegorica del mito, perché non c’è una relazione tra fatti e trasformazione nel cinema della Brühlmann, quanto una dimensione chtonia, dove il passaggio da uno stato all’altro è interpretazione figurativa dei fenomeni naturali.
Se in Hylas And The Nymphs si partiva dal mito e dalla raffigurazione ottocentesca dello stesso attraverso la pittura di J.W. Waterhouse, per poi approdare ad una descrizione dell’adolescenza contemporanea, in Blue My Mind il procedimento è opposto.
In questo senso il film mantiene il doppio registro che le consente di passare dalla rimessa in scena del vissuto al body horror e da questo fino alla caratterizzazione simbolica del cinema fantastico, capace di dialogare con i desideri più profondi dei suoi personaggi.
Più di un racconto sulla lost generation e le sue derive crudeli nella società dell’iper-realtà condivisa, la Brühlmann delinea un percorso di liberazione mettendo al centro la figura di Mia (una splendida e umorale Luna Wedler), quindicenne alla ricerca delle proprie potenzialità, anche quelle inconfessabili, in un contesto sociale che le offre “tutto”, tranne l’espressione dei suoi desideri, più violenti e vicini alla verità.
Se la cornice famigliare non riesce ad offrire alcuna possibilità se non quelle modellate sull’esperienza preventiva dei genitori, la micro-società interna ed esterna al sistema scolastico è descritta, come di consueto, con i toni di un brutale rito di passaggio, dove la tecnologia è semplicemente uno strumento per amplificare le peggiori tendenze collettive del “vecchio” villaggio globale.
Mia è costantemente fuori posto e la Brühlmann sottolinea visivamente questo scollamento sin dalla prima sequenza in cui la ragazza osserva dalla finestra della sua stanza i lavori in corso allestiti entro un orizzonte suburbano di solo cemento. L’ambiente è fondamentale nel cinema dell’autrice svizzera e rappresenta quasi sempre antinomie brucianti tra corpo e spazio, benessere indicato dalla superficie delle cose e inferno interiore.
Rispetto ai colori e alle luci dei piccoli rave, alla casa hi-tech di Gianna (Zoë Pastelle Holthuizen), al rigore mortifero dei genitori di Mia, all’attrazione per tutto ciò che è brutalmente esposto, dalla sessualità nella sua accezione più violenta all’esibizione di sé, la protagonista di “Blue my Mind” può dialogare con l’identità emotiva e pre-formale attraverso il dolore e la violenta interrogazione del suo corpo.
Da questo momento in poi, ovvero da quando il film della Brühlmann abbandona la descrizione del contesto sociale per introdurre elementi istintivi sempre più forti, viene in mente l’esplorazione dell’abietto nel cinema di Breillat, Alison McLean, nella primissima Marina De Van, nel recentissimo Raw di Julia Ducournau.
Questo approccio comunque documentale, nel modo in cui l’autrice riesce appunto ad essere perfettamente “realista” con la descrizione di una psiche che non si riconosce più nelle cornici imposte dalla società, viene assorbito da una percezione altra che sembra, solo apparentemente, addomesticare la crudeltà del contatto e dell’esfoliazione corporea.
Blue My Mind non cessa dì essere tattile quando Mia da forma alla sua identità acquatica, né si perde nella cornice allegorica tipica della fiaba.
Da questo punto di vista sembra che la Brühlmann eviti di infilarsi nella dimensione interpretativa psicoanalitica, rimanendo fortunatamente ancorata ad un cinema del corpo, lontano dalle scorciatoie aumentate del sogno. La patologia viene confinata nello sguardo giudicante degli altri, perché ad un altro livello diventa un creativo e anarchico punto di forza, capace di sbarazzarsi di qualsiasi tentazione curativa e terapeutica che non provenga dalle proprie origini.
Se la memoria cinematografica recente sembra orientarsi verso Agnieszka Smoczyńska e le sue sirene, la Brühlmann non abusa dell’immagine fantastica, ma la fa esplodere come una dolorosa eccedenza cutanea, un parto abietto, una trasformazione alchemica che in quell’orizzonte senza fine del mare ha più di un punto di contatto con le visioni filosofiche dell’Eva di Angela Carter, utili in questo caso a riconfigurare un film che non si fa rinchiudere nello spazio limitante dello sguardo sociologico. In un momento di empowerment(s) di facciata, non è assolutamente cosa da poco.