Esplicitamente realizzato per la YouTube generation, Bohemian Rhapsody è un aggregatore di performance studiato per tirare come un inno da stadio. Non è un caso che tutto sia stato concertato per preparare l’imponente ricostruzione integrale dei venti minuti che videro i Queen esibirsi al Wembley Stadium di Londra, il 13 luglio 1985 in occasione del Live Aid organizzato da Bob Geldof e Midge Ure. Poco importa che l’idea del climax sia di Bryan Singer o meno, al comando per quasi tutta la lavorazione, ad eccezione delle ultime settimane affidate a Dexter Fletcher, post produzione inclusa. L’intenzione comunque condivisa di allestire una macchina del ritmo, concepita con tutte le funzioni di un musical, ci sembra talmente indiscutibile da sovrastare qualsiasi necessità accessoria, a partire dall’ipotesi di restituire “verità” al dramma di Mercury, qui completamente schiacciato da una magniloquente mascherata parodica che stabilisce il tono di tutto il film.
I quattro incisivi aggiuntivi sono un’esplicita dichiarazione di intenti: “Più spazio nella bocca, maggiore l’estensione vocale“. Difficile pensare che la parodia non sia un progetto desiderato e amplificato a dismisura come la protesi dentaria indossata da Rami Malek, per cinismo o per divertimento non fa una grande differenza, perché l’involucro della Rock Opera, cornice per tutta la musica dei Queen, diventa il propellente principale, tra soluzioni che spingono il montaggio nello spazio old fashioned di alcune sequenze frequentative del cinema anni quaranta, qui applicate alla successione degli show della band, fino al “making of” di ogni brano affrontato in studio, dove la sintesi tra ritmo, spazio e gioco visuale, sembra alludere ad un insieme di segni che deve ipertroficamente includere tutto nel minor tempo possibile.
Basta pensare alla genesi di “Bohemian Rhapsody”, letteralmente “illustrata” senza alcuna attenzione filologica, se non dal punto di vista squisitamente visuale. La complessa macchina promozionale che proprio in termini di immagine partiva dagli scatti di Mick Rock per arrivare al videoclip diretto da Bruce Gowers, emerge in forma silhouette sul vetro che separa lo studio dal mixer, quasi un’ombra cinese, un riflesso di proto-cinema fagocitato insieme ad altri segni disseminati su qualsiasi superficie virtuale disponibile.
Il cuore innodico dell’intero progetto è anche nella nascita di “We Will Rock you”, con un Brian May corrucciato che si arrovella sul da farsi e che infine coinvolge i compari con mogli al seguito, spalancando sul momento la porta che dovrebbe consentire al pubblico dei Queen di accedere alla formazione e alla crescita di un brano. Tutto il film è scandito da questo dialogo tra studio e palco, con il primo che diventa più di una volta identico al secondo, per garantire un interminabile passaggio senza soluzione di continuità fino a Wembley. Si stabilisce così un continuum tra l’entrata e l’uscita, la postura del fare rock e tutto il campionario visuale che ne accompagna la mitologia per le masse; quello che conta è il potenziale incendiario, il frullatore di suoni e segni, i brani appena accennati, gli incipit capaci di sostituire qualsiasi pretesa biografica, storica, analitica o anche più semplicemente umana.
Singer e Fletcher avevano poco più di vent’anni durante la trionfale esibizione di Freddie Mercury e soci al Live Aid e hanno sicuramente vissuto l’effetto “Global Jukebox” con una forza indelebile. Dopo gli esperimenti e la pre-veggenza di Nam June Paik con il broadcast satellitare simultaneo di “Good Morning Mr. Orwell”, trasmesso il 1 gennaio 1984 e “replicato” in una forma centrifuga nel 1988 con “Wrap around the world”, il progetto di Geldof/Ure entra nelle case di tutto il mondo attraverso la sua sostanza eminentemente tecnologica e senza le intuizioni creative e connettive del genio coreano. Un sistema di reti satellitari messo insieme per la prima volta e che consente allo show di essere trasmesso in tutto il mondo simultaneamente, ma in una forma lontana anni luce dalle inter-relazioni attuali. Ciascuno di noi, sintonizzato sulle stazioni radio FM o sulle televisioni nazionali che accoglievano la diretta, osservava questa vetrina globale, mentre chi si trovava a Wembley oppure al JFK Stadium era sigillato nella cornice di un’esperienza irripetibile e mai “documentata”, probabilmente senza alcuna consapevolezza del grande occhio planetario che li comprendeva.
“Bohemian Rhapsody” ricostruisce i venti minuti di esibizione allestita dai Queen proprio da quel punto di vista, cercando di inserire qualche volto in più catturato tra la folla, ma senza calarsi in mezzo all’esperienza mai vista di Wembley e innescando l’emozione già mediata dal filtro televisivo, con le grandi vedute aeree che caratterizzavano le sedici ore di diretta e le grandi hit che si succedevano senza sosta. Uno dei gatti di Mercury fa le fusa mentre guarda in solitaria il suo amato padrone dal televisore di casa, al posto di un più probabile acquario di pesci. Ci piace pensare sia una divertente e beffarda immagine teorica.
Al di là degli schermi il Jukebox Globale diventa oggi una global playlist, già pronta per conquistare lo spazio senza più desiderio, corpi, elettricità e mitologia.