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Bolgia Totale di Matteo Scifoni: la recensione

Uno sbirro lordato da bacco, tabacco e Venere, si fa scappare da sotto il naso un delinquentello di terza, con problemi mentali, appena uscito di galera e già ad impicciare con piccoli traffichetti di droga. Per non fargli perdere il posto o più che altro per non fargli spifferare delle sue frequentazioni ambigue con la malavita, il suo giovane commissario (Gianmarco Tognazzi), gli dà qualche giorno di tempo per rintracciarlo ed arrestarlo. Scatta una caccia all’uomo che sarà per i due un terreno di confronto e di progressivo avvicinamento, riconoscendo l’uno nell’altro quel qualcosa di sé che non immaginava.

Vive di contraddizioni l’esordio sulla lunga durata di Matteo Scifoni: sulla pagina scritta, un noir serrato di radice burnettiana, di fatto un amaro apologo sulla perdita di sé e sulla dissoluzione degli ultimi. Negli intenti, un neopoliziottesco con Di Leo e Castellari (e forse anche con un pizzico di Caligari) sugli scudi, nella pratica un dramma urbano con lo sguardo direzionato altrove: ai Marchal d’oltralpe, al Miami Blues di Armitage (di cui è una sorta di remake non dichiarato) o al tricolore, sì, ma di seconda generazione, ai Soavi, ai Bava (Lamberto), giù giù sino ai vari Fragrasso, Camarca & co., tanto che la confezione, persino il lettering dei titoli di testa e coda, rimandano a quel sapore paratelevisivo che era di tanto cinema di genere degli ‘80/’90 (non a caso spesso prodotto Reteitalia). Vuole essere cinema d’azione, si spara e si mozzano dita come niente fosse, ma è nel narrato che emerge la sua forza e la sua più autentica ragion d’essere. E’ la tensione ad agitare nervosa l’intera pellicola ma i personaggi che la percorrono hanno una (bella) statura da pagina scritta ma che solo a tratti riesce a prendere forma, a farsi reale, ad emergere sanguigna per come necessiterebbe. I due personaggi principali funzionano egregiamente nella misura in cui ricalcano gli standard del crime, delle derive umane vissute da un lato all’altro della legalità, ma slittano spesso in uno spazio indefinito, perdendo aderenza col proprio contesto, non riuscendo ad essere sino in fondo i caratteri che il genere imporrebbe, senza però che questo scollamento dal cliché, venga adeguatamente valorizzato o sviluppato. Giorgio Colangeli e Domenico Diele affascinano, in virtù d’interpretazioni più che sentite ma i rispettivi Quinto Cruciani e Michele Loi stentano a farsi corpo: l’uno eccede in un’emotività poco consona al cattivo tenente che dovrebbe essere; l’altro in una misura ed una contenibilità inspiegabile per un criminale borgataro psicotico. E la stessa suburra romana non viene mai realmente esposta nella sua autentica asperità.

Nondimeno, nei suoi chiaroscuri e controluce, nelle sue mille ingenuità e forzature, Bolgia Totale riesce a restituire un cinema di una sincerità incontenibile che non lascia affatto indifferenti. Che intrattiene, che riesce a farsi emozione, che conduce alla più proverbiale delle sospensioni dell’incredulità con estrema naturalezza; un vero e proprio fumetto in live action, con le sue sintesi, i suoi quadri, le sue stilizzazioni, i suoi colori irreali. Un fumetto nero, che, come tale, non pretende la creazione di un’empatia sovrastrutturata o la commozione a tutti i costi, ma di stimolare nello spettatore/lettore una reattività semplice (semplice, non facile) ed avvincere attraverso l’adesione pressoché totale ai suoi eroi o antieroi, facendo della riproposizione di strutture forse anche abusate la forza della propria riconoscibilità.
In questo, Scifoni, fa un lavoro ottimo, rendendo virtù anche le debolezze più evidenti; riuscendo a rendere accettabile, se non persino credibile, i dialoghi fuori fuoco con la non meglio identificata figura in abiti western che agita la mente instabile di Michele patito di Sergio Leone. Il richiamo al Kurt Russell/Elvis di True Romance e talmente diretto da far tenerezza. Il richiamo, nella mancata resa dei conti finale, a Il Buono, Il Brutto E Il Cattivo e al Pat Garrett E Billy The Kid di Pekinpah, con il deserto sostituito da un parcheggio letteralmente schiacciato da un cielo fordiano, però, è una gran bella cosa.

Contraddizioni, quindi; così contraddittorie da contraddirsi da sole, da farsi pregio in luogo che errore e rendere questo Guardia E Ladri moderno, un prodotto piccolo, certo, fatto davvero con niente, qualcosa di prezioso: un lavoro artigianale a cui affezionarsi proprio per la sua imprecisione.

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