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Brimstone di Martin Koolhoven – Venezia 73 – Concorso: la recensione

Nella conferenza stampa di “Brimstone”, il regista olandese Martin Koolhoven afferma che il suo film può essere definito con l’etichetta di “oltraggioso”. Occorre constatare, ahimè, che la visione suscita un sentimento diametralmente opposto, anche per la convinzione di poter  shoccare lo spettatore attraverso una serie di aspetti a sfondo religioso molto esibiti ed evidenti, lontani dalla storia passata e presente e forse più vicini ad un immaginario pulp di terza categoria.

Per questo risultano perfettamente inutili certi riferimenti fin troppo espliciti a “La Morte Corre Sul Fiume”, il capolavoro di Charles Laughton, inseriti nell’ennesima digestione post-moderna che fa a brandelli i classici senza inventarsi un nuovo sguardo.

Nei fatti avviene una continua stimolazione nei confronti dello spettatore, con dettagli e PP esasperati sugli elementi più grafici, tra cui frustate, punizioni “doverose” attraverso cui redimersi, una patina finto provocatoria che avvolge a doppio strato il teatrino messo su da Koolhoven, costituito da una saturazione di tipo estetico.

Per questo l’algida Dakota Fanning ci ha ricordato il modo con cui Nicolas Winding Refn si era approcciato alla sorella Elle per “The Neon Demon”. Un approccio castigatore, asfissiante che impedisce in toto l’espressione attoriale e la piega ai capricci di un autore concentrato nell’espressione dei propri feticismi culturali. In questo caso Koolhoven supera quella sottile linea che divide l’aperta critica rispetto alla violenza e un certo sadico piacere (peraltro gratuito) nel mettere la donna con le spalle al muro o in ginocchio ai piedi del pervertito reverendo (Guy Pearce).

Non si comprende perciò la centralità della prospettiva femminile, se non nell’ottica di una parità forzata dei sessi, perfettamente adattata al modus pensandi del regista: “I think there are more similarities than differences between the sexes; somehow, people tend to forget that. Among all the things I am, a man is only one facet. I think I probably have more in common with female filmmakers than with, for example, a preacher, even if he and I share our gender.”

In questo modo, Martin Koolhoven sembra privilegiare tutto l’universo formativo legato alla sua infanzia, quella trascorsa in un paese di tradizione Calvinista. Di qui l’utilizzo di strumenti di tortura come la briglia dei muti, fatta indossare dal Reverendo alla mansueta moglie (Carice Van Houten) come fonte di umiliazione pubblica, in origine utilizzata contro coloro accusati di infedeltà, prostituzione, stregoneria.

Oltre a questo ritorna nell’immaginario proposto dal regista olandese il giudizio per ordalia, un tipo di tortura che prevede l’impiego del fuoco, non solo legato al simbolismo teologico, ma anche al terrore scatenato dal bagliore minaccioso del fuoco stesso.

L’impiego di tali strumenti, come elementi simbolici per rappresentare la paura del male puro sono forzati al massimo, tanto da sfiorare la caricatura e l’effetto comico involontario.

Sono sufficienti alcune sequenze di polarità apparentemente opposta, come il suicidio della moglie del reverendo, dove il teatro dell’evento sintetizza lo spazio drammaturgico in direzione teatrale, oppure altri momenti in cui la lettura diventa pulp, grottesca, tragica, senza una reale direzione e idea di sguardo.

Il cinema di Koolhoven sembra votato ad un eclettismo esasperato e inconcludente, dove il cambio di registro continuo diventa una modalità abusata e utilizzata per stupire a tutti i costi, mettendo in un calderone tanti, troppi elementi slegati l’uno dall’altro e lontani dall’idea di gioco con i generi cinematografici.

Si ringrazia Michele Faggi per le chiacchierate stimolanti sul film che hanno contribuito alla stesura di questa recensione.

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