venerdì, Novembre 22, 2024

Buio di Emanuela Rossi: la recensione in anteprima

Chiuse in casa mentre fuori il mondo muore, tre ragazzine consumano riti di una vita che non c’è più. Fanno un picnic, prendono il sole, consumano lauti pasti; fingono ovviamente, nella penombra della loro prigione, e intanto il padre passa le proprie giornate a cercare qualcosa con cui sopravvivere durante l’apocalisse raccontata dall’esordiente Emanuela Rossi in Buio.

Il primo film sulla quarantena in cui ci siamo ritrovati non aveva intenzione di esserlo: nato ben prima della pandemia, fa parte di quel timido ma interessante rifiorire del cinema di genere nel panorama italiano. La fantascienza, anche quando intimista come in questo caso, spesso anticipa la realtà, soprattutto quando cerca di raccontare il presente, e non c’è dubbio che Buio sia una metafora dei rapporti tra uomini e donne all’interno dei nuclei familiari; significato esplicitato nella dedica finale, se mai ce ne fosse stato bisogno.

L’uomo senza nome ben interpretato da Valerio Binasco incarna il pater familias perfetto, padrone e cacciatore, cui le donne, le sue donne, devono sottostare. Nel continuo e in parte involontario specchiarsi di Buio nell’attualità più stringente, la figura del padre ci riporta a uno dei problemi meno discussi della quarantena, quello delle tante persone, in buona parte donne, che si sono ritrovate costrette con partner o familiari violenti, e senza più vie di fuga. Questa costrizione, spesso psicologica e diventata concreta, è concreta anche nell’allegoria del film di Rossi.

L’impianto narrativo di Buio è facilmente leggibile dagli spettatori meno ingenui, e questo potrebbe compromettere per molti il piacere della visione, che senza dubbio risulta a larghi tratti prevedibile, nonostante qualche tentativo della regista di confondere le acque, forse anche con poca onestà nei confronti dello spettatore, chi vedrà capirà.

L’impressione è che sotto la metafora ci sia un film a tesi, volto a illustrare un percorso di emancipazione, e dove l’apocalisse sta per i dettami dell’ordine patriarcale costituito. In uno dei migliori film dello scorso anno, Parasite, il regista Bong Jong-ho mostrava come una famiglia di derelitti cercasse non di demolire una società che permette la divisione in classi, ma sognasse di raggiungerne il vertice, ribaltando i rapporti di forza ma perpetrando il sistema.

Stella, la giovane protagonista di Buio, potrebbe allo stesso modo essere tentata di diventare una mater familias di fatto replica del padre. Guardando il film lo spettatore capirà se la ragazza riuscirà a proporre una soluzione diversa ed eventualmente quale impatto sul mondo essa avrà, in un finale questo sì sorprendente che porta a compimento la dimensione allegorica della pellicola, anche se sembra venire direttamente da un film del 2011 di cui è meglio tacere il titolo per evitare spoiler.

Buio è un film altalenante. La bella, cupa fotografia di Marco Graziaplena rende molto bene l’opprimente villa fatiscente che fa da set a buona parte del film, restituendo visivamente la soffocante realtà raccontata da Emanuela Rossi. Ma in generale è tutto il comparto tecnico a dimostrare se mai ce ne fosse ancora bisogno, e purtroppo forse per qualcuno ce n’è ancora bisogno, che il cinema italiano sa ancora essere davvero ben fatto. A traballare sono le sequenze che si svolgono all’esterno, quando il film sembra avvicinarsi a un sentimentalismo adolescenziale fuori contesto e comunque per nulla efficace. Qualche risvolto narrativo un po’ farraginoso contribuisce a frenare il buon esito di Buio, allegoria dai nobili intenti ma solo parzialmente riuscita.

Parzialmente riuscita ma di certo non fallimentare. Soprattutto perché si tratta di un cinema di cui l’Italia ha bisogno, piccole produzioni di genere capaci di intrattenere e assieme raccontare il presente. Un tempo di ciò eravamo maestri, e ora dopo lunghi anni durante i quali questo filone era andato quasi del tutto a scomparire, assistiamo all’emergere di alcuni autori che cercano proprio di riprendere le fila di quel discorso. Ai vari Mainetti, Bianchini, Misischia, De Feo, Gualano, Sportiello e tanti altri, senza considerare casi particolari come quelli di Garrone e Gipi, si aggiunge ora Emanuela Rossi. Il cui esordio, ancorché zoppicante, dà ulteriore linfa vitale alla serie B italiana, che in fondo così di serie B non è.

Marcello Bonini
Marcello Bonini
Marcello Bonini nasce a Bologna nel 1989. Insegnante, fa il montatore per vivere. Critico Cinematografico, ha scritto per diverse riviste di cinema e pubblicato una raccolta di racconti. Fa teatro e gira cortometraggi.

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