Cafarnao, Antica Galilea, è tradizionalmente il luogo in cui ha inizio la predicazione del cristianesimo; in Cafarnao, terzo lungometraggio della regista e interprete libanese Nadine Labaki, prossima presidentessa annunciata di quella stessa giuria che l’ha premiata lo scorso anno a Cannes, l’amore a Beirut non è che una mancanza siderale, un vuoto incalcolabile prodotto dal caos che dilaga spaventoso in sterminate, estenuanti guerre private, parassita indebellabile che contamina il quotidiano per sagomarlo in maniera incontrovertibile tra le difficoltà di una società alla deriva, al largo dell’indifferenza. Del Messia resta il bambino, ma l’espressione della sua rabbia è tutta terrena, come lo è la forza che ne muove i passi, per quanto eccezionale possa apparire ad occhi digiuni di ogni privazione.
A dodici anni Zain, che vorrebbe andare a scuola ma deve lavorare, è il maggiore di una prole di cui più volte si perde il conto, vive in una casa fatiscente con un padre e una madre che insieme alla capacità di dare sostegno economico alla famiglia non hanno mai avuto neppure quella di averne cura affettiva. Quando sua sorella minore viene venduta in sposa al prezzo di un affitto e qualche pollo, Zain corre via in un groviglio di strade, incontri e intrecci che, percorsi da Labaki con lui, svolgono un affresco composito di tematiche incandescenti: l’assenza di tutele adeguate ai diritti dei più piccoli, l’immigrazione clandestina, il razzismo, il traffico di essere umani, l’urgenza disperata di avere un pezzo di carta per essere attestati come persone.
“Poverty porn”, si è detto. Ricattatorio, si è detto. Labaki disonesta, si è anche detto, in riferimento a un uso estetizzante della miseria che manipolerebbe una volta di più gli sfruttati
Zain e gli altri sono infatti attori non professionisti che hanno alle spalle un vissuto simile a quello dei personaggi messi in scena– secondo i detrattori per veicolare un’immagine calcolata della situazione libanese, superficiale, programmaticamente commovente, dura quanto basta a nutrire il fabbisogno di senso di colpa del “pubblico bene” occidentale che, conclusa la visione, può versare qualche lacrima ma tornare a casa pacificato e con le mani pulite sapendo che Zain Al Rafeea e la sua famiglia hanno ora un’istruzione e un futuro garantiti.
E invece no. Questo Cafarnao è un film bellissimo. Lo è oltre ogni cinica e moralista lettura, laddove di spicciolo moralismo si vorrebbe accusare chi l’ha fatto.
La colpa di Labaki è allora quella, unica, di aver alimentato un fraintendimento a livello linguistico-narrativo, innescato un cortocircuito tra dichiarati intenti e resa finale. Se vero è che la lavorazione del film è totalmente atipica, a fronte di tre anni di approfondite ricerche su condizioni di vita di fatto estranee al milieu della regista, sei mesi di riprese a dimostrazione di una grande libertà lasciata ai neo-attori, all’improvvisazione, al flusso del reale, e 520 ore di girato, una camera a mano ad altezza bimbo e la città a fare da set “naturale” non sono necessariamente sinonimi di stile documentario, né ogni rappresentazione di una certa infanzia al cinema deve entrare di dovere in una combutta ad armi impari tra epigoni di Antoine Doinel o di alcuni dei protagonisti del neorealismo.
Il ralenti insistito e gli archi melodrammatici della colonna sonora curata da Khaled Mouzanar, l’umorismo dolceamaro che, ammansitosi nel dramma – di altra più leggera, pungente e sofisticata tempra era quello di Caramel (2007) e E ora dove andiamo? (2011), lo tonifica, non sono tacciabili di troppa enfasi o freddo distacco, fondano bensì un sistema empatico che poggia su un’epica, una simbologia e un pathos tutti hollywoodiani.
Zain, processato per aver accoltellato “un figlio di puttana”, intenta causa di rimando ai suoi genitori per averlo messo al mondo, parla un po’ come un gangster, un po’ da imbonitore di film giudiziario e, se l’unico vero sogno è quello di salire su “una barca con luci bellissime e cibo buonissimo” che lo porti via lontano, in cuor suo spererebbe anche di vedere un giorno l’Uomo Ragno in carne ed ossa al posto di una bizzarra e allampanata versione da lunapark. Il suo profilo non è del tutto realistico, magari neppure verosimile, ma puro e vigoroso, strumentale solo nella misura necessaria ad impattare sui codici di quelle platee che possono, devono fare la differenza.
In quanto a Labaki, che ha incontrato la stampa, essere idealisti è già un atto di coraggio.
Quella del piccolo protagonista è una guerra di un’altra dimensione, senza bombe, “si presenta stratificata in profondità, si percepisce nella quotidianità, si avverte nella società, nella vita delle persone. Non parliamo direttamente di guerra nel film. Zain in un certo senso è una sorta di messia, un salvatore, colui che in una certa forma o maniera è la voce di tutti quei bambini che non si possono esprimere. Tutto questo non è il risultato di uno studio, ma emerge istintivamente dal caos”, conferma.
“La situazione è tanto grave quanto seria: in un paese come il Libano, che già di per sé si trova ad affrontare tantissimi problemi economici e che finora ha ospitato un milione e mezzo di rifugiati, è facile riscontrare come conseguenza che il sistema è ingiusto, è iniquo nei confronti di alcune persone, ha fallito. Nel fare questo film ho sentito la responsabilità di dare a questo problema un volto umano, di esporlo non in maniera astratta come ci capita di sentirlo ascoltando i numeri, le cifre al telegiornale. Trovare la soluzione sta ai governi”, continua riferendosi all’insufficiente assistenza umanitaria.
Lei spera che il film aiuti a suscitare un dibattito nella società per creare strutture che aiutino questi bambini, c’è qualcosa in moto in Libano in questo senso?
“Il film ha suscitato un forte dibattito, ha attirato l’attenzione sul problema. E’ stato un risultato importante ma credo che si debba uscire dal confine cinematografico, cercare di far partire un movimento se non altro in Libano, dove io vivo e dove la mia voce è sentita e ascoltata. Abbiamo intenzione di realizzare delle proiezioni anche per il governo, per i ministeri, per i giudici, per gli avvocati, per cercare di far sì che qualcosa cambi, facendo anche un po’ di attività di lobbying per modificare la legge. Non so se da parte mia questo è un atteggiamento troppo ingenuo, se sono troppo fiduciosa, ma è semplicemente mia responsabilità andare avanti.”
Il bambino protagonista sta vivendo una nuova vita. Come sono i contatti con la sua famiglia? Ti senti orgogliosa di essere riuscita ad aiutare almeno una vita?
“E’ stato forse il più grande successo che siamo riusciti ad ottenere, Zain vive in Norvegia con tutta la sua famiglia, ora va a scuola, così come vanno a scuola per la prima volta tutti i suoi fratelli e sorelle e i suoi genitori. Ha avuto un nuovo inizio, ha ricominciato da zero. Questo è successo a tutti gli altri bambini di strada presenti nel film, ora studiano, e per noi è un risultato molto positivo. Il film ha cominciato a cambiare qualcosa, qualcosa di molto piccolo rispetto alla situazione, ma ci auguriamo che possa portare ad altro.”
Uno dei temi che il film denuncia è anche quello dei matrimoni combinati ai danni di bambine molto piccole, ed è una piaga che c’è in moltissime parti del mondo. Come si è documentata su questo aspetto? Ha qualche dato?
“Sono rimasta sconvolta nello scoprire che i numeri ufficiali sono niente in confronto alla realtà. Le cifre non rappresenteranno mai la vera portata del problema, che si tende a nascondere. I matrimoni di queste bambine così piccole vengono considerati normali, parte della cultura, ma non sono altro che transazioni economiche, passaggi di soldi. E’ una piaga che non verrà mai messa in luce nella sua pienezza, i governi non vogliono assolutamente rivelarne le dimensioni.”
Dopo le riprese aveva circa 520 ore di montaggio, per fare il montaggio ha impiegato due anni. Questo perché ha lasciato liberi gli attori accumulando materiale o perché doveva scegliere quale storia raccontare?
“Siamo partiti da una sceneggiatura molto solida, strutturata, che era la conseguenza di ben tre anni di ricerche. Non sentivo di avere titolo a scrivere una storia che fosse il risultato della mia immaginazione, perché io non vissuto quella privazione. Non volevo che la sceneggiatura fosse basata su mie idee, sapevo che sarebbe stato necessario fare molte ricerche. Abbiamo visitato i quartieri più disagiati, siamo andati nei centri di detenzione, abbiamo parlato con tantissimi bambini, abbiamo trascorso molte ore nelle aule dei tribunali proprio per cercare di capire come funziona il sistema di giustizia. Essendo un film con bambini e con attori non professionisti, sapevamo che il processo sarebbe stato lungo. Abbiamo cominciato a girare affidandoci a quello che loro ci davano. Tra l’altro abbiamo scelto degli attori che avevano quasi vissuto proprio quel tipo di battaglia. Non era pensabile che potessero “recitare”, abbiamo preso quello che ci hanno dato nel corso di sei mesi, c’è stata anche moltissima improvvisazione, sono venute fuori tantissime cose che non ci aspettavamo, noi le abbiamo seguite e a mano a mano la sceneggiatura veniva di volta in volta riscritta.”
Questo film rappresenta una svolta nella sua carriera: passa da un cinema brillante che trattava argomenti anche sociali ma in una chiave di leggerezza a un linguaggio molto diverso. Ritiene di proseguire su questa strada? Come immagina il suo cinema dopo Cafarnao?
“E’ difficile dirlo. Io non vado alla ricerca di idee, di spunti, le idee mi vengono, e quando mi vengono diventano un’ossessione, continuano a suscitare domande. Una volta che capisci sempre più quanta è la tua responsabilità come artista di dare voce a certe persone che non ne hanno, quando ti rendi conto il cinema è una delle armi più potenti per parlare di certi temi, a quel punto non puoi più tornare indietro. Sento che la mia voce deve avere un impatto, soprattutto la mia, che vivo in una regione maledetta in cui le cose non vanno come dovrebbero andare, e il mondo sta diventando sempre più come Cafarnao. E’ necessario trovare dei modi di pensare alternativi che possano rappresentare una soluzione.”
E a proposito dei modelli che l’hanno ispirata:
“Io non avvertivo una qualche ispirazione, semplicemente avevo la sensazione che la storia dovesse essere raccontata in questa maniera, non c’è stato nulla di costruito. Gli attori non professionisti, le riprese con la camera a spalla sono semplicemente il risultato del film, non è stata un’imposizione nostra agli attori, siamo stati noi ad adattarci al loro modo di recitare, al modo in cui si film si dispiegava e si svolgeva.” e si svolgeva.”