È un’occasione perduta quella di Cake, perché al netto dell’edizione italiana, con un doppiaggio terrificante in grado di neutralizzare le asperità e il timbro vocale della Aniston con quello più rassicurante e argentino di Eleonora De Angelis, Daniel Barnz fa di tutto per suturare lo script di Patrick Tobin, la cui forza risiede proprio nella deambulazione accidentata di Claire Simmons (Jennifer Aniston), con il corpo martoriato dal dolore, le posture obbligate, i suoi viaggi in macchina al posto del navigatore stesa sul sedile reclinato e il continuo abuso di pillole e antidolorifici, spesso combinati con un letale mix alcolico. Claire sembra una borghese annoiata, colpita da grave depressione psico-fisica, i cui traumi rimangono fuori campo per quasi tutto il film, sostituiti dalle dolorose trasformazioni del corpo che ne rappresentano in modo preciso e tagliente, il male di vivere.
Invece di sfruttare questi stimoli, Barnz intepreta la relazione con Jennifer Aniston, spinta dallo script di Tobin in una dimensione quasi tattile, come una tavolozza sulla quale segnare in modo intrusivo esplicite indicazioni simboliche; dal momento in cui il percorso di recupero di Claire scandito dalle riunioni collettive di un gruppo di supporto, entra in collisione con la vicenda di Nina, giovane madre suicida che gettatasi da un ponte ha lasciato dietro di se il giovane marito e un figlio piccolo, il rispecchiamento progressivo che si attiva e reagisce sulla sua vita viene riempito dalle visioni della giovane donna, inquietante e provocatoria apparizione fantasmatica con il volto pungente e minuto di Anna Kendrick, elemento di disturbo non solo per la coscienza di Claire ma anche per l’andamento stesso del film, improvvisamente incagliato in una serie di allegorie visive, inclusa quella che dà il titolo al film, il cui ruolo sostituisce il processo di mutazione interiore che avrebbe potuto sortire altri risultati se fosse rimasto ancorato, concretamente, ai gesti, ai difetti di deambulazione e al martirio del corpo, totalmente a carico dell’intensa interpretazione della Aniston, senza che il suo regista riesca a trasformarlo in sguardo.
La stessa Nina, imposta su Claire da una prospettiva allucinatoria, assume in realtà un aspetto vivo e concreto, quasi fosse in grado di modificare la realtà; l’effetto, con risultati disastrosi, non è diverso da quei telefilm degli anni sessanta (Bewitched su tutti) dove le apparizioni ex abrupto venivano elaborate nel corpo della commedia di situazioni e che qui al contrario sabotano il dramma interiore, assolvendo la funzione di un vero e proprio antidolorofico rispetto ai traumi che Claire sta cercando di elaborare.
Basta pensare al modo in cui Claire decide finalmente di abbandonare la consueta posizione in auto, assumendo una postura eretta e sollevando l’inclinazione del sedile a novanta gradi, con un lieve rallenti che sottolinea l’epicità del gesto minimo; Barnz ha evidentemente bisogno di espedienti anti naturalistici, di flashback inutili, di apparizioni fantasmatiche, di trasformazioni artificiose del tempo, per raccontare i passaggi difficili della vita di Claire, senza comprendere di aver di fronte il corpo di un’attrice i cui momenti migliori sono quelli dove riesce liberamente a esprimere la propria rabbia e il proprio cinismo; in questo senso la centralità che viene offerta al rapporto tra Claire e Silvana, la badante messicana interpretata da Adriana Barraza è forse l’aspetto più vivo dell’intero film, in quelle schermaglie trattenute e che si verificano nello spazio minimo della vita quotidiana, un abisso famigliare di cui Daniel Barnz ha una fottuta paura.