Non è difficile trovare una connessione tra il calvario di padre Lavelle e quello di Cristo; il pastore della piccola comunità irlandese di Easkey, situata nella contea di Sligo dove John Michael McDonagh ha ambientato il suo film, è circondato dal male come condizione interna ed esterna al ruolo della chiesa, una pervasività quasi originaria che viene chiarita sin da subito, quando il sacerdote, durante un momento di confessione, assorbe le minacce di un uomo, vittima di abusi durante l’infanzia da parte di un prete pedofilo. È l’innocenza di padre Lavelle ad attrarlo, quella possibilità di determinare la morte di una persona assurta a simbolo, occupando la posizione del carnefice, come espiazione estrema di un dolore impossibile da cancellare e allo stesso tempo, origine di una catena di morte che trasforma gli innocenti in assassini.
Padre Lavelle non è un sacerdote convenzionale, più vicino alle figure crepuscolari della letteratura noir, vive fuori dal passato separato dal mondo e dalla famiglia; padre di una giovane donna, dopo la scomparsa della moglie si allontana per seguire la sua vocazione, trovandosi al centro di una comunità dolente, attraversata dal peccato come condizione inevitabile e in equilibrio su quel crinale tra salvezza e dannazione.
John Michael McDonagh, dopo The Guard, torna a lavorare con Brendan Gleeson, affidandogli una parte non così distante dall’ufficiale del Connemara, figura imperfetta che assume su di se il peso morale di un’intera comunità, ma i toni, ad eccezione di una certa causticità di fondo, non sono più quelli umoristici del film precedente, anche per il valore simbolico che il regista di origini irlandesi affida al personaggio di Padre Lavelle, testimone eccentrico di un mondo alla deriva, dove il peccato è l’altra faccia di Dio.
In questo senso Calvary è costruito secondo i parametri del racconto corale, con una galleria di figure che indirizzano il proprio dissidio al pastore del paese, oggetto di continue provocazioni scagliate contro come interrogativi disperati sull’origine del loro stesso male, abisso irrinunciabile ma anche condanna dolorosa.
È una prospettiva che diventa quasi didascalica quando padre Lavelle dialoga in carcere con un omicida, la cui descrizione del senso di onnipotenza provato durante l’atto di uccidere diventa consapevolezza della doppia natura dell’essere umano, dove la pulsione distruttiva assume il valore di un contatto estremo con la qualità amorale e indifferente del Fattore.
Allo stesso modo, quando padre Lavelle alza il gomito e perde il controllo tanto da ricevere le bastonate di Brendan Lynch, il proprietario del pub, alle osservazioni del suo assistente, stupito dalla possibilità che un buddista possa avere una reazione così violenta, il sacerdote risponde facendo una lista delle nefandezze legate alle diverse tradizioni religiose: “pensa che i buddisti non menino la gente, pensa che i buddisti non si fottano i figli come tutti gli altri? i tibetani sputano sui ciechi in strada! in Africa uccidono gli albini“; è una lucidità che padre Lavelle mantiene nei confronti delle tradizioni istituzionalizzate e che gli consente di osservare qualsiasi confessione, anche la professione di fede dell’ateo, con uno sguardo che non ha alcuna natura consolatoria, basta pensare al confronto con la giovane vedova, dove è in discussione la fede come paura della morte e quello con Frank Harte, il medico ateo che nel raccontare la paralisi di un bimbo dopo l’anestesia dimostra di provare un sottile piacere, non troppo distante da quello del serial killer incontrato in carcere.
La chiesa incendiata, il padre di una ragazzina che insulta il sacerdote solo perché l’ha sorpreso a parlare pacificamente con la figlia, come a rovesciargli addosso lo stigma di una colpa che diventa sguardo pregiudiziale, il cane Bruno, compagno di vita, trovato con la gola squarciata, sono le stazioni di un calvario che si concluderà escatologicamente con il sacrificio e che allo stesso tempo rilancerà una prospettiva alternativa, attraverso la contemplazione del perdono.
Ma al netto di una conclusione che ci è sembrata davvero appiccicata, è proprio questa predestinazione tragica a rappresentare la debolezza di tutta l’operazione, catarsi studiata a tavolino che trova compimento in quel carrello immaginario a fare da connettore del dolore per tutti i personaggi del film, una propensione a spiegare le immagini e a caricarle di un significato univoco che contrasta fortemente con il valore ambiguo del materiale drammaturgico, la cui forza, quando rimane, è legata ad alcuni elementi performativi e alla capacità di Brendan Gleeson nel gestire lo spazio. Non aiuta la fotografia di Larry Smith, sicuramente attento ai colori e alle luci del digitale, basta pensare al lavoro fatto per “Solo dio perdona”, forse l’unico elemento vivo del film di Nicolas Winding Refn, ma proprio per questo corresponsabile nel trascinare il film dalle parti di una visione paesaggistica che non diventa mai sguardo, con gli scorci irlandesi, il mare, i ruderi, le rocce, che fanno da sfondo ai corpi e solamente in rari casi raccontano della solitudine della figura umana nell’asperità crudele della natura.