domenica, Dicembre 22, 2024

Capitan Harlock 3D di Shinji Aramaki: l’immagine e il riflesso

Che la versione diretta da Shinji Aramaki del noto manga creato originariamente da Leiji Matsumoto, risulti, ad una prima visione, ricca di riferimenti al pensiero Nietzschiano è abbastanza chiaro anche dalle numerose citazioni che il film contiene da “La Gaia Scienza“, non solo alcuni elementi narrativi, come per esempio personaggi, nomi e simboli, ma sopratutto in relazione alla progressiva sovrapposizione del mondo del divenire a quello dell’essere, nella descrizione dell’eternità racchiusa nell’istante.

In realtà, Aramaki insieme allo sceneggiatore Harutoshi Fukui, procede stratificando e inserendo dei continui deturnamenti, a partire da un soggetto narrante che esprime la versione più passivamente nichilista di questo pensiero, è un anziano signore seduto al bancone di un bar, un uomo del popolo che osserva insieme ad altri “fantasmi” la “Storia” come uno spettatore ipnotizzato dalla persistenza dei media.

All’idea dell’eterno ritorno dell’uguale, che aprirà e chiuderà il film, con una frase molto precisa che commenta l’arrivo e la partenza della figura di Harlock, il dubbio che questo inesorabile avanzare del divenire possa in qualche modo acquisire un senso diverso, è dato dall’assunzione di responsabilità rivoluzionaria che si identifica con la figura mitica di Harlock; ma è solamente uno dei tanti livelli del film, perchè Shinji Aramaki, autore passato dal disegno tradizionale (Megazone 23, MADOX-01) all’animazione computerizzata (Appleseed), ha diretto una serie di lungometraggi applicando massivamente tecniche CGI e in qualche modo approdando con Space Pirate Captain Harlock al suo titolo più ambizioso per il modo in cui la tecnica, 3D incluso, diventa un vero e proprio saggio sull’immagine virtuale.

Viene in mente, guardando alcune immagini del film, una frase di Henri Cartier Bresson: “Per me una sola cosa conta: l’istante e l’eternità, l’eternità che, come la linea dell’orizzonte, non smette di arretrare“; una suggestione arbitraria e possibile, come tutte le riletture critiche, che ci consente però di pensare ad alcuni scatti del grande fotografo Francese in quella relazione palindroma e interscambiabile tra immagine e riflesso.

Da una parte quindi la tecnica utilizzata da Aramaki sfrutta le possibilità del motion capture per avvicinare il movimento facciale e i corpi dei personaggi ad un iperrealismo di tipo fotografico, creando una strana vertigine tra la solidità dei volumi e la vicinanza con le soggettive virtuali shoot’em up che sono allo stesso tempo perfette e vicine a quello che è diventata di fatto una visione simulata, sia nella prassi delle guerre tecnologizzate che nell’esperienza esplorativa di tipo videoludico. Ma a questo setting di corpi e movimento se ne sovrappone un altro completamente evanescente ed ologrammatico, con un’idea di immagine che è già data filosoficamente come tridimensionale, per la combinazione che gli ologrammi effettuano con le diverse prospettive di una realtà riprodotta, incluso quello che lo sguardo empirico non consente, ovvero, vedere attraverso l’oggetto rappresentato.

Un’intuizione interessante se si pensa che il film di Aramaki è prima di tutto un continuo succedersi di apparenze, illusioni virtuali, proiezioni geofisiche, immagini che sono in un luogo mentre il corpo è altrove, in una vorticosa riproposizione di quella “trasparenza totale” di cui parla Baudrillard quando nel riferirsi alla realtà virtuale, racconta dello smarrimento dell’ombra e della perdita dell’opacità.

Aramaki compie un vero prodigio nel ridurre tutti i valori cromatici dell’immagine ad una scala vicina al grigio, creando uno sfondo plumbeo e opaco, a cui affida sostanzialmente la presenza scultorea di corpi e oggetti CGI iper-reali e fotorealistici, come si diceva, separati in profondità dal passaggio delle immagini evanescenti e dei corpi di luce che vengono letteralmente trasformati in forme proiettate su uno schermo infinito; un’applicazione intelligentissima del 3D perchè ci invita a leggere l’immagine cinematografica in modo diverso, su diversi livelli, e sopratutto senza ricorrere alla tradizionale articolazione del montaggio diegetico che mette in relazione più oggetti con la mutazione della messa a fuoco.

Tutto allora appare come un’infinita sovrimpressione di strati, tra numeri, codici, mappe, immagini tecniche, improvvise interferenze, come per esempio la “corruzione” dell’immagine terrestre che mostrerà a poco a poco un sembiante completamente diverso, quando l’illusione proiettata sarà disintegrata; viene in mente Ridley Scott, non solo per un certo decòr Gigeriano nella morfologia dell’astronave di Harlock, costituita da questa eccedenza di materia oscura, ma per le intuizioni che il regista inglese aveva raggiunto nella versione 3D di Prometheus, film, come raccontavamo, sulla relazione tra volume e trasparenza nell’immagine tridimensionale.

Quando Capitan Harlock, incaricato di gestire il nuovo monumentale esodo verso madre terra, comprenderà il disegno oligarchico del potere che l’ha arruolato, si renderà responsabile di un’azione terroristica sparando materia oscura sul pianeta cosi da renderlo arido; anch’esso parte di quel magma nero, si garantirà l’immortalità con cui poter vagare nello spazio per combattere la federazione terrestre e condividire con più persone possibili un futuro rientro.

Harlock è quindi agente di distruzione e di rinascita, è il male incarnato e colui che può disvelare l’illusione delle immagini. Questo limen tra visibile e invisibile, coinvolge moltissimi aspetti del film di Aramaki; tutti i personaggi del film vivono tra la vita e la morte, e sperimentano una condizione di passaggio dal corporeo all’incorporeo, nel tentativo di combattere disperatamente la morte, mentre da una prospettiva ancora diversa, Aramaki dissemina il film di appigli Zen, tra cui una serie di questi molto simili a quel sutra dove un uomo inseguito da una tigre precipita in un precipizio e riesce a rimanere tra la vita e la morte appendendosi con una mano ad una vite.

Sotto di lui un’altra tigre lo attende, mentre due topi cominciano a rosicchiare la vite a cui è rimasto appeso; ad un passo dalla morte vede accanto a se una fragola matura, e contemplando l’eternità dell’attimo la coglie per gustarne l’infinita dolcezza.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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