Home alcinema Chez nous – A casa nostra di Lucas Belvaux: la recensione

Chez nous – A casa nostra di Lucas Belvaux: la recensione

La protagonista, un’infermiera a domicilio che vive nell’area del passo di Calais, non lontano da Lille e dal Belgio, si chiama Pauline ed è interpretata da Émilie Duquenne che debuttò diciassettenne coi Dardenne. Nel film precedente del regista Lucas Belvaux ‘Sarà il mio tipo?’ (in francese, ‘Pas son genre’) era una parrucchiera di provincia innamorata di un professore di filosofia parigino, snob e a tal punto compiaciuto della sua estrazione sociale da sacrificare all’orgoglio di classe la passione romantica.

In questo ultimo film, ‘Chez nous’ (in italiano, ‘A casa nostra’), la caratterizzazione del personaggio femminile principale segue lo stesso registro: una giovane donna ‘semplice’ che sa esprimere calore umano ed empatia, dolce ed accudente con tutti, i due figli avuti da un poco di buono; il padre malato ed indocile che rifiuta le cure; i suoi pazienti, nativi o immigrati, cattolici o musulmani; l’uomo che fu suo amore giovanile e che torna nella sua vita non senza ombre.

Proprio perché dotata di queste qualità rassicuranti da ‘principessa del popolo’, Pauline viene considerata la candidata ideale per le prossime elezioni da un partito della destra nazionalista, guidato da una pasionaria bionda che somiglia molto, nell’aspetto e nei modi ruvidi, a una certa Marine Le Pen.

Non è un caso che il film, uscito nelle sale francesi a fine febbraio, abbia fatto infuriare il Front National e la sua leader che deve essersi riconosciuta subito nel suo doppio cinematografico. In Italia il film è nelle sale in questi giorni che hanno visto trionfare Macron, economista dalla faccia pulita, a cui il popolo francese ha dato fiducia, non solo investendolo del compito di risollevare il morale di un paese messo così duramente alla prova dal terrorismo, ma anche quello di rivendicare la propria superiorità sull’appiattimento populista, sul revanscismo nazionalista, sul ripiegamento ‘isolano’ di cui ha notoriamente dato prova la Gran Bretagna.

‘Chez nous’ è, così, più che un film militante, un film ‘elettorale’ perché confezionato ad hoc e perché mostra come una donna senza macchia, con una tradizione famigliare comunista, pragmatica e priva di velleità, finisca per cadere nella rete del populismo che, grazie alla sua retorica della non retorica, pretende di ristabilire un purismo democratico che, però, a ben guardare, altro non è che la tirannia dell’amatorialità, di un modello sbandieratamente impolitico basato sull’improvvisazione e sul dilettantismo.

‘Chez nous’ sembra, a tratti, ricordare certe atmosfere dei Dardenne, senza, tuttavia, riuscire mai a saldare sociologia ed esistenzialismo, a evocare quell’umanità vibratile, pur nella cattività, degli ultimi, la sottile disperazione del sangue che si raffredda nella routine, di una febbre di vivere che non divampa, ma si cronicizza nella frustrazione e nella repressione vitalistica sino al cortocircuito e all’esplosione.

Sulla funzione narrativa, che pure è assolta con sensibilità, ma senza ritmo e con qualche rigidità, in questo lungometraggio intelligente nella sua scolasticità, prevale la meditazione politica che, quando non si fa manifesto, risulta attuale ed acuta: per Machiavelli il potere è professione, è esercizio di un calcolo, è emancipazione dallo scrupolo morale, distinzione tra efficienza ed etica; è scienza esatta della prosperità civile che parla una lingua diversa da quella del buonismo catechistico.

Nella loro demonizzazione del ‘machiavellismo’, nella cieca esaltazione dell’irreprensibilità del militante, nel loro fanatismo democratico per cui chiunque può partecipare al gioco del potere, a patto che si mostri ignaro delle sue logiche, i movimenti populisti finiscono per fare della radicalizzazione dell’etica e della pulizia morale un totalitarismo più subdolo e pericoloso dell’autoreferenzialità castale.

Ma, in fondo, neanche le élite silenti sono senza colpa e, come i nuovi imbonitori, intirizziscono nell’anacronismo e nella paralisi. Belvaux fa un buon cinema di servizio e sembra invitarci a pensare a una terza via, alla necessità di un nuovo ciclo politico che sappia interpretare in modo non solo più edificante, ma anche più acuminato, la crisi della democrazia liberale.

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