Profondamente scosso dalla notizia del suicidio di quattro fratellini, un maschio e tre femmine, dai 13 ai 5 anni, che nelle montagne del Ghizhou hanno bevuto pesticida per mettere fine ai loro giorni, il regista intraprende non solo un viaggio alla ricerca delle motivazioni di quell’atto disperato, ma anche un cor-po a corpo senza sconti con i demoni dell’infanzia materialmente ed affettivamente indigente, confrontandosi fisicamente con altri bambini incontrati lungo la strada ed emotivamente con il bambino che lui stesso è stato.
Il lungometraggio è incardinato su un progetto che definire affascinante sarebbe riduttivo: decostruire l’idea dell’infanzia come quella di una stagione miracolosa e innocente, fortino di inattaccabile felicità, e, ancor più, indagare l’universo onirico dei bambini, i loro sogni che spesso divengono incubi, le loro paure e le loro privazioni, le bestie della mente che azzannano alla gola l’acerbità delle loro piccole vite.
Rong Guang Rong s’è formato come fotografo ed è, infatti, soprattutto per la fotografia fosca che il film non tradisce l’intento disturbante ed è anzi nella sporcizia dell’immagine, nella sua tetraggine espressionistica, che l’opera si specchia, identificando nel livore della patina coloristica la sua impronta più significativa. Tuttavia, l’andamento programmaticamente funereo e punitivo, pur coerente con la poetica autoriale, non scongiura del tutto lo spettro della maniera e la sprezzatura nel dominio imperfetto, per deliberata negligenza, della regia esige allo spettatore un’estrema motivazione instillando il dubbio che l’eccesso di erudizione cinefila e la prepotenza della cifra estetica finiscano, in fondo, per strozzare il racconto e negare a chi guarda l’esperienza della profondità.
Il coinvolgimento personale del regista nell’operazione risulta, così, gridato ma non interiorizzato e lo scandalo morale dell’infanzia ferita irrompe come uno slogan che irrita, ma non sconvolge, in una catarsi resa impossibile dalla tirannia dell’immagine sulla parola che si spegne, anziché esaltarsi, nel lirismo.
‘Children are not afraid of death, children are afraid of ghosts’ resta, comunque, un’esperienza visivamente totalizzante e il modo in cui Rong Guang Rong filma i suoi bambini, con le loro facce paffute e gli sguardi buoni, i sorrisi aperti e i corpi irrequieti, il candore con cui accolgono la mancanza – insieme con sorpresa, malinconia e turbamento –, senza dubbio centra l’obiettivo dello sgomento.