A distanza di dieci anni da No Man’s Land, Tanovic torna a parlarci del suo paese, la Bosnia. Siamo nella jugoslavia post-titina, tra la nascita dei singoli stati nazione e lo scoppio della guerra serbo-croata. Divko (un impeccabile Miki Manojlovic), dopo vent’anni passati a vivere e ad arricchirsi in Germania, torna nel suo paese natale, nel sud dell’Erzegovina, sfrattando la moglie rimasta a casa sua col figlio e portandosi con sé un’affascinante e giovane ragazza tedesca. Da questo incipit, in puro stile comico (ritmi, tempi, gag, luci, colori) scaturisce un intreccio di passioni impossibili, amori ritrovati, odi, riconciliazioni, tradimenti, vecchi comunisti nostalgici, piatti improbabili, gatti smarriti. In un ordine precostituito – quello della cittadina serba nel periodo antebellico – abbiamo il classico agente disturbante (Divko) per tornare, nello stupendo finale, ad un nuovo ordine. Questa epopea familiare si svolge sullo sfondo storico-politico di un inarrestabile declino delle speranze di pace tra i popoli serbi e croati, “bisogna rifare la nuova Croazia” e la via non può che essere la guerra. È la sovrapposizione dei due piani narrativi, uno circolare e uno discendente, a costituire la grandezza e l’originalità del film: se nella prima parte la perdita della felicità e l’illusione del controllo precipitano sia nella storia privata che in quella politica, è nella distonia finale che Tanovic, a volte didascalicamente ma comunque sempre intelligentemente, sembra volerci dare una “soluzione alternativa” all’assurdità della guerra, che arriva a mettere il figlio di Divko contro i suoi stessi amici. La contraddizione tra le due storie diventa drammaticamente esplicita nella bellissima scena finale, nella quale con un dolly si passa senza soluzione di continuità dal ricongiungimento del protagonista con sua moglie all’inizio dei bombardamenti. La vicenda di un uomo che alle prese con un “vecchio nuovo” trova con coraggio una via di uscita umana ad un disequilibrio palese (quello familiare) è un auspicio e un incitamento alle nuove generazioni a tornare a quello che Tanovic definisce “l’ultimo momento in cui eravamo felici”. Il cinema del regista serbo, come d’altronde spesso quello di Kusturica, è segnato proprio da questo conflitto tra la tragedia umana e la felicità, il riso, l’ironia, la vitalità, la commedia.