Il miracolo di Lourdes è negli occhi dei pellegrini che si ammassano sugli autobus insieme ai malati, gli invalidi, quelli che non hanno più alcuna speranza, giunti insieme a migliaia di altre persone comuni per visitare il santuario dedicato a Nostra Signora, costruito intorno alla grotta di Massabielle per tener vivo il riflesso dell’apparizione riferita da Marie-Bernarde Soubirous.
Sono le immagini che aprono “Lourdes”, il cortometraggio di Ken Russell realizzato nel 1958 per il centenario delle manifestazioni mariane e insieme al successivo “Amelia and The Angel”, parte di un dittico controverso sull’idea di rivelazione. Nonostante il sostegno produttivo del Catholic Film Institute, lo sguardo di Russell esplode di lussuria “optical”, mentre la frammentazione dello sguardo moltiplica i souvenirs, viaggia tra i rosari, si perde nel riflesso luccicante dei simulacri, fino a penetrare la basilica sotterranea di San Pio X, eretta appena un anno prima e pronta ad accogliere almeno ventimila persone.
Russell la filma completamente vuota, evidenziando le linee architettoniche e ricreando una fantasia dadaista che guarda indietro al cinema delle avanguardie e avanti verso il suo stesso degli anni settanta.
Definito successivamente dal regista britannico come una “parata dell’orrore”, il culto mariano filmato a Lourdes stordisce e non dà tregua nella brulicante iper-visibilità delle reliquie. Liberati dal fardello della visione, i pellegrini occupano il loro spazio percettivo con l’accecamento volontario causato delle immagini votive.
Se c’è rivelazione è nei loro occhi, come in quelli di Amelia davanti ad un’annunciazione laica e ad un nuovo paio d’ali, utili per liberarsi dal senso di colpa di una rigida educazione alla disciplina.
L’ingresso di Russell nel rito cattolico coinciderà con la sua uscita, per una definizione di fede basata sulla continua messa in abisso della frode, autoallucinazione in attesa di uno squarcio di luce.
Ciarlatani di fiducia quelli incontrati da Amelia lungo il percorso verso il paradiso, così come da Russell nella descrizione dei suoi personaggi più estatici.
Miracoli che scaturiscono dalla menzogna o dall’operato di “uomini di fiducia”, come quelli immaginati da Herman Melville e Sinclair Lewis.
“Elmer Gantry”, l’impostore interpretato da Burt Lancaster nella splendida versione per il cinema diretta da Richard Brooks, torna violentemente allo stupore infantile con una chiesa in fiamme alle spalle e un nuovo esilio davanti, le parole sono quelle della prima lettera ai Corinzi: “Quand’ero bambino, parlavo come un bambino, ragionavo come un bambino; quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino”.
Il tabernacolo incendiato diventa improvvisamente l’occasione per sostituire la visione del miracolo con l’intensità del fuoco; Lancaster che lascia dietro di sé una comunità nuovamente riunita intorno ad una chiesa distrutta è una straordinaria doppia rivelazione, l’inganno che si incarna nella manifestazione di un bene comunitario e lo slancio affettuoso di cui solo l’imbroglione è capace, espresso pienamente dal suo indimenticabile sorriso in primo piano.
La capacità di vedere che Maria ci regala ne “Il re dei re” di Cecil B. De Mille apre il film semplicemente conducendo il ragazzo cieco al cospetto del figlio di Dio, è la rivelazione della stessa nostra immagine soggettiva, mentre tra il riflesso e la carne risiede l’apparizione della Vergine nella “Bernadette” di Henry King, fantasma sovrimpresso la cui persistenza è quella della fotografia spiritica, spettro della mente, visualizzazione “presente” dell’immaginazione, schermo opaco che trattiene l’erotismo istintivo di Linda Darnell.
Nella relazione irrisolta tra pensiero e immagine, il “farsi visione” delle apparizioni, nel cinema classico americano così chiaro ed allo stesso tempo evanescente, preme dai margini sessant’anni dopo in “Mary” di Abel Ferrara. Maria Maddalena, il tredicesimo apostolo, un’altra apparizione, immagine censurata da Pietro nel Vangelo di Maria che coincide con la soggettiva femminile mentre si fa strada come possessione invisibile e vitale sull’immagine di tutta la Storia.
A che cosa credi? A porre l’interrogativo nel film di Ferrara è Marie Palesi, l’attrice che interpreta quella di Magdala nel film di Tony Childress.
La sua voce interviene sotto forma di testimonianza assente durante il talk show condotto da Ted Younger; lontana, in Palestina, alla ricerca di una comunità originaria, irrompe in studio con la qualità di un’aberrazione del tempo. Né il passato, né il presente, né il futuro, come le trasmissioni temporali ne “Il signore del Male” di John Carpenter, film disseminato di apparizioni lungo la curvatura dello spazio-tempo.
Eppure un cineasta da sempre interessato alle meccaniche del tempo come Nicolas Roeg, nel bellissimo “Cold Heaven” si pone un interrogativo preciso sul fardello della rivelazione: è necessario tenere gli occhi aperti ed accettare, oppure è possibile rifiutare l’escatologia del destino, il monito della manifestazione mariana, ricostruendo la propria fede altrove?
In una realtà globalmente e oscenamente votata all’ipertrofia delle immagini, la voracità e la concupiscenza di uno sguardo che tutto divora impone la denigrazione del concetto stesso di visibilità. Si può perdere un occhio, ma soprattutto, si può voltare le spalle al miracolo della rivelazione, riconducendo l’icona nella dimensione possibile del mistero.
In Copertina: Talia Shire in “Cold Heaven” di Nicolas Roeg (USA, 1991)