Dalla Lisbona in forma cromatica di Cisne allo spazio che si delinea intorno al contesto famigliare di Colo, parola che la stessa Teresa Villaverde lascia nella sua versione non tradotta, per aprirsi alla molteplicità e all’indeterminatezza del significato.
Il nuovo film della grande cineasta portoghese è anche un film di nature morte, alcune esplicite e legate alla ricerca pittorica che da tempo attraversa lo studio dell’inquadratura nel suo cinema, una modalità lontanissima dal compiacimento contemplativo del tableaux vivant, altre stratificate e non immediatamente riconoscibili.
La colazione che Pai (il padre,João Pedro Vaz) ha preparato per Mãe (la madre Beatriz Batarda), l’uccellino di Marta (Alice Albergaria Borges), il pesce eviscerato invaso dalle mosche. Potere dell’inanimato che non simbolizza, ma diventa ponte verso il nulla, rendendo indistinguibili i confini tra la vita e la morte.
In questo senso il movimento sonnanbulo del cinema di Teresa Villaverde moltiplica le sue direttrici e investe tutti i personaggi, un procedimento avviato nel passaggio da Transe a Cisne e che qui segue senza alcuna tentazione indagatoria, lasciando accadere le numerose derive, come nei percorsi notturni di Ana in Agua e Sal
Volessimo ridurre Colo ad un film che racconta l’attuale crisi economica europea,potremmo parlare, come per Transe, di un’altra europa, quella quotidiana che rimane ai margini dell’informazione, quella che osserva le conseguenze relazionali all’interno di una famiglia. Ma se Transe non era un film sulla tratta verso est in senso stretto, ma ancora una volta la perdita identitaria raccontata da un punto di vista estremo e osservata nella sospensione indicibile tra essere e mondo inanimato, Colo recupera quelle intuizioni, intercettando lo svuotamento dell’immagine tra sguardo e oggetto, contemplazione verso il nulla.
Anche per questo motivo i film di Teresa Villaverde risultano ostici, difficili, a tratti illeggibili, per estrema vicinanza alle cose, che quasi sempre coincide con una deliberata distanza da esse, cosi da lasciare andare il racconto verso la libertà del mistero.
Tutto il significato che una famiglia ha cercato di dare al proprio mondo, ordinandolo intorno a sé, fa improvvisamente coincidere spazio identitario e oblio. Questa aberrazione in Colo sembra concentrarsi su quella bellissima e terribile immagine conclusiva del casotto che ospita Marta, nido accogliente ma anche immagine della povertà, traccia di una fiaba interrotta, oppure minaccia imminente, sospesa come altri destini in equilibrio nel film della Villaverde
La materia allora, ovvero gli oggetti, le case, le nature morte, l’ombra del lavoro, inesistente per Pai e pura ossessione per Mãe sono tracce assurde, orrorifiche che si riverberano nei gesti e nei corpi, nel mal di vivere di Marta e nella dimensione spettrale occupata da Pai, nel corpo provato di Júlia, interpretata da Clara Jost, figlia della regista portoghese e del regista americano Jon Jost. Elementi che non simbolizzano, semplicemente non sono.
Da questo punto di vista Colo contiene due, tre film o tracce diverse.
Film sull’età acerba, nel passaggio dalla vita alla percezione, chiarissima, della morte e che Villaverde cattura in momenti di altissima bellezza difficili da descrivere se non riferendosi ad un orizzonte interrotto, agli squarci di natura che si spalancano dalle cornici abitative, a quel vuoto quasi sempre anelato (il secchio che Pai mette in testa, Julia vicinissima al salto verso la morte, Marta che segue il consiglio del casiere e si serra a chiave nel casotto) e mai visto sino in fondo.
Film su un uomo che perde il suo centro, ritrovandosi in uno spazio alieno, abitabile solo con la ripetizione di alcuni gesti che anelano a quello che non esiste, non esiste più o forse non é mai esistito.
Film sulla paternità e sul legittimo rifiuto della maternità.
Film sugli adolescenti che si sostituiscono agli adulti e viceversa.
Film sulla crisi, quella più profonda dove il denaro non si nomina (odio i soldi, dice Marta, quando ne ha bisogno e non vuole chiederne).
Questo cinema della visione interrotta, per chi scrive intensissimo, riesce comunque ad accennare una richiesta d’amore. Non é un gesto compiuto, sarebbe troppo semplice, come parlare di ripartenza e di speranza.
In Colo le aperture verso altre possibilità sono inconoscibili, ma si delineano dentro il delirio estremo della fine.
Pai pensa ad una nuova paternità allargata, proprio quando il niente occupa le sue giornate, Mãe al contrario resiste a qualsiasi forma di indeterminatezza, cercando una logica, un ordine, una dimensione specifica, mentre il mondo intorno a lei si sgretola e le sfugge come un oggetto minacccioso e ininterpretabile.
Ma é su Marta che Villaverde pone maggiore attenzione. Sul suo girare a vuoto, sulla sua stessa paura del vuoto, movimenti entrambi contratti in quella splendida immagine di transito di cui parlavamo, dove improvvisamente la ragazza si trova ad occupare uno spazio clandestino, vera e propria rifugiata in fuga dal mondo.
Immagine che si chiude su un film enigmatico ed inquietante, forse davvero vicino al senso profondo di un continente che ha perso ogni approdo e ogni speranza.