Quello che più colpisce in questo breve racconto (74 minuti di forte concentrazione narrativa) è il silenzio.
Suranga Deshapriya Katugampala, giovane regista al suo primo lungometraggio, rivela una spiccata passione per il cinema d’autore, trattando con sicura padronanza di linguaggio una storia che al realismo spoglio delle immagini e delle parole affida il compito di rendere lo spaesamento biografico ed esistenziale dei personaggi.
Una madre e un figlio, un’anziana donna disabile, il coretto dei compagni del figlio e delle badanti del centro anziani, infine la dirimpettaia attempata dedita al più antico mestiere del mondo, sono maschere di una messa in scena minimalista posta su un palcoscenico spoglio, privo di fondale.
La città, Verona, è un pretesto geografico, sarebbe improprio forzare interpretazioni in direzione antagonista e pregiudiziale pensando al Nord/Est razzista d’Italia.
L’appartenenza etnica dei personaggi è ininfluente, l’ibridazione culturale rende i problemi della comunità srilankese molto simili a quelli di tutto il mondo. Difficoltà nella comunicazione, problemi di identità, crisi dei legami famigliari, gap culturale tra generazioni, esclusione e inclusione all’interno di modelli sociali alienati e alienanti, tutto questo è interetnico e appartiene alla civiltà postindustriale contemporanea, a tutte le latitudini, ad esclusione di quelle in cui ancora si muore di fame e di sete.
Il figlio (Julian Wejesekara), quattordicenne, gran ciuffo sugli occhi, sguardo torvo e strafottente dell’adolescente con “i pugni in tasca”, non parla alla madre, usa solo il borbottìo sordo della disobbedienza o l’inveire rabbioso della ribellione.
La madre (Kaushalya Fernando, una delle attrici più popolari in Sri Lanka, Caméra d’Or 2005 per La terre abandonnée), badante di una vecchia vedova disabile (Nella Pozzerle) che i figli chiamano di rado al telefono, non parla al figlio se non per trasmettergli la sua ansia, il rimprovero, l’accusa. A metà fra mater dolorosa e madre courage, vive da sradicata in un posto di cui non impara bene neppure la lingua. Trascina la sua vita faticosa per amore del figlio, ma è il legame ombroso e istintivo di qualsiasi mammifero per il suo cucciolo, e il cucciolo ha per la madre l’attaccamento animale determinato dal bisogno, nient’altro.
Quello che manca è la crescita, la consapevolezza, l’assunzione di responsabilità. Manca un padre, la famiglia è monca, questo accresce lo scollamento mentre non annulla il dolore, la perdita, il senso di dolorosa frustrazione di entrambi.
Completano lo scenario, che a ragione si può definire uno spaccato della società contemporanea, la vecchia disabile che emette solo i petulanti ritornelli di una mente ormai definitivamente annebbiata, i coetanei del ragazzo, piccoli balordi con famiglie disfunzionali, al momento dediti al piccolo cabotaggio di periferia ma è facile prevedere il loro futuro, e la squallida puttana dell’appartamento di fronte, di cui non si sa bene se provare pena o disgusto vedendola prender soldi da un ragazzino.
Mondo da cui sembrano banditi quelli che un giorno si chiamavano “valori”, termine ambiguo e non di rado sopravvalutato, sembra tornato al grado zero della convivenza, all’afasia per annullamento di senso.
“ Parlami ” è l’unico, grande momento in cui la madre riuscirà a dire la parola giusta al figlio. Inascoltata, continuerà a brillare nel deserto, forse un giorno riuscirà a rompere il muro dell’ isolamento e aprire un pertugio nell’opaco bozzolo in cui viviamo racchiusi, monadi senza porte né finestre.
“ Non chiederci la parola che mondi possa aprirti “, avvertiva il Poeta.
Lo sguardo silenzioso del ragazzo, seduto a tavola a giocherellare con lo smartphone, verso la madre dedita alla pulizia delle patate è però una richiesta di aiuto e di amore, muta, strozzata in gola, ma esiste. E forse un giorno quella parola riuscirà a chiederla.