Gli elementi per imporsi come forzatissimo film d’autore, quindi in un’accezione del tutto negativa, ci sono tutti nell’opera prima di Henry Hobson la cui formazione si è per lo più sviluppata nell’industria dei videogame come regista di trailer e nell’attività di title designer. Tutti aspetti che confluiscono nella superficie di “Maggie” da un punto di vista estetizzante, per mimare il modello di certi brutti film da Sundance Festival dove il supposto rigore indipendente talvolta va di pari passo con l’assenza di qualsiasi sguardo.
Girato in 25 giorni con gli attori istruiti al millimetro in un contesto post apocalittico, traslando i comportamenti legati ai disturbi da Stress Post Traumatico come indicazione di massima per affrontare il set, il film risente dell’approccio vicino all’advertising e al graphic design che come si diceva, Hobson ha praticato fino a poco tempo fa curando tra le altre cose la campagna per X-Com.
I trucchi sono i soliti: inizio in medias res; scoperta progressiva delle cause che hanno ridotto la giovane Maggie in quelle condizioni; allargamento dell’ambito narrativo con la rappresentazione di una terra quasi abbandonata e con gli interni domestici a farla da padrone, oltre a questa strisciante piaga del contagio che tende a separare la cittadinanza sana dagli appestati in quarantena, sovvertendo tutti i rapporti della comunità anche all’interno della famiglia stessa.
Al centro Arnold Schwarzenegger che oltre a produrre il film si fa ritagliare da Hobson la figura crepuscolare di Wade Vogel, padre di famiglia che sopporta la croce di una figlia malata destinata a trasformarsi in uno zombie e pronto a sacrificare quello che rimane della propria vita per proteggerla ad ogni costo.
Con tutti i difetti del nuovo cinema digitale che si gingilla con le ottiche cinema, come se la relazione tra fuoco e fuori fuoco fosse già di per se una questione qualitativa, “Maggie” è un film lentissimo dove non accade niente. Non è una questione meramente narrativa, ma la manifesta incapacità di Hobson a gestire vuoti, fuori campo e un cinema che vorrebbe essere fortemente ellittico ma che in realtà risulta banalmente monodimensionale e senza alcuna capacità di lavorare sui corpi, sui gesti, sulla tensione tra spazio e performance e neanche sugli aspetti più strettamente sociologici che vorrebbe tiepidamente sollevare. “Maggie” non colpisce da nessuna parte e non va da nessuna parte, perdendo l’occasione di essere un film politico o semplicemente intimo.
Lo spazio chiuso e l’improvviso squarcio survivalista (la sequenza con la volpe) che espone il film alla retorica di quel cinema di ambientazione rurale tipico di alcune produzioni indipendenti americane ci ha fatto pensare ad un altro sopravvalutatissimo film, Winter’s Bone di Debra Granik, con cui condivide la stessa inerzia. In quel caso l’unica rivelazione era Jennifer Lawrence, in questo caso c’è l’anti-rivelazione di uno Schwarzenegger annichilito e congelato in uno spazio senza vita.