Non è un paese per vecchi, l’America: ce lo dimostrano i fatti prima (e massivamente dopo) dell’irriverente e lucida analisi dei fratelli Coen. Molti sono, per questo, gli anziani nell’ombra protagonisti di una contraddittoria migrazione in uscita: qualsiasi altro luogo adattabile alle loro spiccatamente americane condizioni può candidarsi a diventare isola felice a margine di ogni contestuale geografia fisica e umana.
Stefano Cravero, già regista del documentario sportivo Bandini – Tragedia in tre atti (2013), e Pietro Jona, in precedenza fonico e filmmaker televisivo, portano in coppia sul grande schermo, dopo essere passati per il Trieste Film Festival, Country for old men, collezione di spaccati di vita della comunità statunitense over sessanta insediatasi a Cotacachi, Ecuador, cittadina alle pendici dell’omonimo vulcano, esempio di armonica convivenza tra natura e cultura, nondimeno paradiso fiscale per i nostri, ridotti alla soglia della povertà in un paese dal welfare fantasmatico.
Uno spicchio di sud America diventa così l’Ovest del ventunesimo secolo, una nuova terra dell’oro da colonizzare con una gentilezza che da sincera si riduce a convenevole dal momento che a corrisponderle è un’edilizia a stelle strisce fatta da ghetti di villette gemelle, muri e cancelli serrati a proteggerle non solo dal potenziale “pericolo”, ma persino dalla vista dell’Altro, non conforme ai canoni estetici degli ospiti-padroni.
La macchina da presa si accende in medias res su due coniugi campione: lui, una mano al bastone e l’altra al braccio della moglie, sorride di fronte al nuovo inizio: la prospettiva vale l’affanno. E, si sa, operarsi in Ecuador costa meno, se il medico poi conoscesse bene l’inglese sarebbe tutto ancora più facile.
Altri volti intervallano i loro, una pluralità di voci individuali racconta storie che confluiscono, senza che gli esperienti ne abbiano percezione, tantomeno se convinti della loro specifica giustezza a confronto con gli ideali e lo stile di vita dei connazionali, in patria o a Cotacachi che siano, in una sorta di straniante e collettiva narrazione individualista, per inderogabile natura capitalista. Recitano la loro fede anti Trump, non sanno di somigliare a lui più che a chiunque altro.
Si tratta di un quadro critico che prende corpo a mano a mano che il minutaggio del film scorre, e quella che dapprima sembrerebbe una regia piana, impersonale, curata ma priva di particolare genio, si rivela tutt’altro: Cravero e Jona ponderano l’empatia, scarnificano la quotidianità per ricomporla in una selezione di episodi la cui somma dà la misura del loro punto di vista, per nulla imparziale e molto poco “politically correct”. C’è una distanza tra l’obiettivo e i soggetti, uno scarto di sensibilità, forse anche di comprensione. Alienati e alienanti, infarciti di un sogno nato tramontato, pionieri del nulla nel tentativo di rifondarlo almeno per sé in un microcosmo senza futuro, possono al massimo ripeterne i rituali tra le pareti domestiche o seduti in veranda.
Se tale incoscienza, o elusione della coscienza, genera amarezza, non ci si può esimere dal provare una certa tenerezza nei confronti di questi vecchi dagli sguardi aberrati, soprattutto quando negli affetti, di fronte al pericolo qui davvero concreto e ineluttabile della morte, rivelano tutta la loro fragilità, che è doppia in una realtà di cristallo.