L’andina Cotacachi, Ecuador, è l’insperata protagonista di un revival, quello del sogno americano. E’ lì che vive infatti una comunità sempre più nutrita di anziani statunitensi, traditi con ferocia da un ideale a cui, forma mentis irriducibile, non possono rinunciare, finendo così per cercarne le tracce e riprodurne l’epica nel più incontaminato altrove.
Passato per il Trieste Film Festival, distribuito da Lab 80, “Country for old men” di Stefano Cravero e Pietro Jona documenta le contraddizioni quotidiane di quest’insolita migrazione in uscita, mettendo ansie e timori del proprio pubblico allo specchio. Che finiamo tutti per essere più americani di quanto non vogliamo ammettere ce lo spiegano bene i due registi mentre ripercorrono con noi le fasi di sviluppo di un progetto che arriva finalmente in sala dopo quattro anni di lavorazione.
Country for Old Men di Stefano Cravero e Pietro Jona, il trailer ufficiale
Country For Old Men TRAILER UFFICIALE from Lab 80 film on Vimeo.
Country for old men rappresenta per entrambi, già attivi in ambito cinematografico, l’esordio alla regia nel lungometraggio. E’ il film che nasce dalla volontà di dare vita a un progetto insieme, o è il soggetto ad avervi fatti trovare e pensare di dirigerlo a quattro mani?
Un po’ le due cose. Ci conoscevamo già perché avevamo lavorato insieme in un’altra occasione (Slow Food Story, di Stefano Sardo) ma ognuno nel suo specifico ruolo di sempre, cioè il montatore Stefano e l’operatore Pietro. Siamo entrambi consumatori di Cinema Documentario e abbiamo spesso parlato di film che avevamo visto o che avremmo voluto girare. Quando siamo venuti a conoscenza della storia dei Gringos di Cotacachi abbiamo pensato che volevamo raccontarla e in maniera naturale abbiamo deciso che avremmo condiviso la regia del film.
Come e quanto ha inciso la vostra formazione da tecnici? Da quali punti di vista questo lavoro può collocarsi in continuità rispetto a ciò che avete fatto in precedenza, e sotto che aspetti invece può rappresentare, se la rappresenta, una frattura?
Stefano monta film di finzione e documentari, Pietro è cameraman per la TV ma ha lavorato a sua volta come fonico e come operatore in diversi documentari quindi c’è sicuramente un’importante componente di continuità con quello che abbiamo fatto nelle nostre diverse carriere prima di questo film. Il fatto che ci siamo per una volta occupati della regia rappresenta un’evoluzione, anche se episodica e non necessariamente definitiva, piuttosto che una frattura. Tra l’altro bisogna anche dire che molto spesso, in un documentario a basso budget e girato da una troupe ridotta al minimo, la vera regia sta letteralmente nelle mani di chi si occupa di registrare le immagini e i suoni e di chi a posteriori le monta: in questo caso noi due. Detto questo, in montaggio alla fine è intervenuto Luca Mandrile, che nulla sapeva del progetto e ha per questo portato un punto di vista nuovo, fresco e distaccato.
La storia che raccontate, quella della comunità di anziani statunitensi trasferitasi in Ecuador per trascorrere la vecchiaia, è lontana non solo geograficamente, ma, presumibilmente, anche dall’immaginario del pubblico cui il film è arrivato e arriverà. In che modo l’avete scovata e, soprattutto, che cosa ha catturato la vostra sensibilità convincendovi che ci fosse del potenziale?
Al pubblico cui il film è arrivato e arriverà è familiare il recente fenomeno che vede migliaia di pensionati italiani partire alla volta del Portogallo, della Bulgaria o delle Canarie nella speranza di condizioni di vita migliori a un prezzo più accessibile, ma in effetti probabilmente non lo era quando abbiamo cominciato a girare il film circa 4 anni fa perché, appunto, ancora non aveva raggiunto le proporzioni che ha oggi. La storia l’abbiamo scovata per caso: un’amica che in quel periodo viveva a Quito e che nei fine settimana si spostava spesso all’interno del paese ce l’aveva segnalata e ci aveva invitato ad andare a controllare con i nostri occhi. A convincerci del potenziale della storia dal punto di vista cinematografico sono stati due aspetti. Il primo è stato il suo carattere universale e quindi esemplare, il fatto cioè che i primi a fare le spese del fallimento (o del malfunzionamento) del sogno americano fossero proprio i cittadini di quel paese che per noi ha sempre rappresentato un modello, una guida e un riferimento. Il secondo riguardava l’estetica di tutta la vicenda, il contrasto visivo che prima ancora di partire immaginavamo tra le esistenze protette dei nostri protagonisti, con le loro abitazioni e le loro attività in tutto e per tutto tipicamente americane, e il vuoto pneumatico e per loro un po’ ostile del paesaggio andino nel quale queste si svolgevano.
Quali sono state poi le fasi di lavorazione del film, e come siete riusciti a mettere a fuoco questo potenziale di fronte a importanti enti e organi produttivi per ricevere un sostegno adeguato, che vi ha permesso di raggiungere un alto livello sotto il profilo formale?
Noi siamo stati convinti fin dall’inizio della validità del progetto. In una primissima fase chiaramente non avevamo una produzione quindi abbiamo sostenuto personalmente i costi del primo giro esplorativo. Col girato del primo viaggio abbiamo montato un trailer convincente che ci ha aiutato a trovare una casa di produzione e ad accedere ai primi finanziamenti. La produzione di nuovi trailer e la scrittura di nuove versioni del progetto si sono alternate alle fasi di ripresa, tre in tutto di cui l’ultima più lunga e approfondita. Ci fa piacere che si parli di alto livello sotto il profilo formale, perché siamo orgogliosi di poter dire che tutto il lavoro sul campo è stato svolto da una troupe ridotta all’essenziale, cioè da noi due soli.
L’America è per statuto il simbolo dell’Occidente, eppure l’essere americani implica uno scarto significativo rispetto all’essere occidentali. Il vostro documentario, pur girato interamente fuori dagli States, riflette anche su questo. In che misura vi siete sentiti voi, e di conseguenza il pubblico che ha dimostrato di avervi capiti in occasione del Trieste Film Festival, in connessione col sentire di queste persone? Quanti “muri” si sono invece interposti?
Ci siamo spesso detti che girando un film in Ecuador abbiamo imparato molto sull’America e sugli americani, e dal nostro punto di vista è stato molto interessante renderci conto proprio di questo, cioè del fatto che lo scarto sentito dagli americani nei confronti degli occidentali in genere, e nella fattispecie nei nostri confronti, fosse maggiore di quello che sentivamo noi rispetto a loro. Chi si chiedeva che interesse potessimo avere noi a raccontare una storia come quella che stavano vivendo loro non aveva mai realizzato quanto tutti gli occidentali fossero, volenti o nolenti, “americani”. Per noi questa affermazione fotografa un dato di fatto e non contiene alcun giudizio, positivo o negativo che sia, di tipo politico. Tutti gli occidentali sono cresciuti con Topolino, con Happy Days, con i jeans Levi’s e la Coca Cola, noi per primi consumiamo voracemente i prodotti di una cultura che spesso critichiamo e al contempo amiamo. Per noi è assolutamente normale guardare film, leggere romanzi e ascoltare dischi che arrivano dall’altra parte dell’oceano, non saremmo le persone (e i registi) che siamo se non lo facessimo e non lo avessimo sempre fatto. L’Italia è un alleato degli USA e la sua storia recente è legata a doppio filo con la loro e con il blocco dei paesi occidentali. Abbiamo da tempo abbracciato i valori del sogno americano e, per riallacciarci a quello che dicevamo poco fa, proprio per questo ci interessava raccontarne la crisi concentrandoci sulle sue origini. Questo discorso ci siamo trovati a farlo spesso con i protagonisti del film e crediamo che la maggior parte di loro lo abbia recepito. L’empatia poi, il sentirsi connessi col sentire di queste persone, crediamo che da una parte sia stata una conditio sine qua non per poter svolgere al meglio il nostro lavoro e dall’altra è stata sicuramente la conseguenza del trovarsi in una condizione simile alla loro, nell’incertezza e nel mezzo di una crisi economica. Anche di questo abbiamo spesso parlato. Tra l’altro, a pensarci bene, la nostra condizione è peggiore della loro, perché loro hanno una pensione mentre noi, con i nostri lavori di natura precaria, probabilmente alla pensione non arriveremo mai.
Dalla visione si evince molto a proposito del tipo di rapporto che avete instaurato con la comunità: frontale, senza filtri. La vostra scelta è stata quella di raccogliere quanti più punti di vista possibili all’interno di un nucleo ristretto per raccontarne l’esperienza sfaccettata. L’impressione è che la messa in prospettiva rispetto al contesto avvenga poi in fase di montaggio: tante voci riecheggiano una sola storia, quella di un paese, ancora una volta l’America, e il vero dialogo si instaura con un Altro che è silente ma ingombrante, Cotacachi. Come si è svolta la vostra permanenza lì? Quanto, e di che qualità, è stato il tempo trascorso con gli americani, e qual è, d’altra parte, il vissuto che vi ha permesso di cogliere l’anima del luogo, presente nel film anche quando non mostrata?
La nostra intenzione è stata fin dall’inizio quella di cercare di comporre un affresco che rappresentasse una situazione e uno stato d’animo più che di raccontare una storia nel senso più letterale e classico, con un protagonista, un conflitto e un epilogo, per cui, nell’ottica di comporre un quadro più possibile realistico e al tempo stesso rispettoso della varietà delle situazioni, ci è venuta naturale una sorta di moltiplicazione dei personaggi seguiti. In montaggio abbiamo cercato di restituire alla narrazione la sua natura corale, concentrandoci sui personaggi cui ci eravamo più affezionati e con i quali avevamo passato più tempo, ma anche dando voce tutti quelli che anche con una singola apparizione avrebbero aggiunto significato al quadro generale. Crediamo che questo si evinca facilmente guardando il film: alcuni personaggi compaiono una sola volta e altri ritornano invece a più riprese. Abbiamo cercato di limitare l’uso delle “teste parlanti” e di favorire le scene di osservazione e, di fatto, di vere interviste posate non ce ne sono proprio: si tratta più che altro di discorsi fatti direttamente alla camera dai nostri personaggi durante la prima fase delle riprese, quella esplorativa, discorsi che poi hanno trovato posto nel montaggio finale. Durante le riprese abbiamo deciso piuttosto in fretta che non avremmo raccontato il paese se non attraverso l’esperienza dei nostri protagonisti. Per questo motivo, anche se non mancano i paesaggi della città e dei vulcani attorno a essa, l’assenza di personaggi ecuadoriani è quasi totale e gli unici locals che compaiono nel film fanno parte di quella schiera di “aiutanti” che parlano un minimo di inglese e che si occupano delle necessità dei Gringos: l’agente immobiliare, l’avvocato, il veterinario, il tassista tuttofare, il chirurgo. In questo modo Cotacachi, l’Ecuador e la condizione stessa di rifugiati dei nostri protagonisti restano sì silenziosi e in secondo piano, ma incombono come il classico elefante nella stanza. Abbiamo effettuato tre viaggi in Ecuador, due di una ventina di giorni e un terzo di poco più di un mese. Dal primo all’ultimo viaggio è passato più di un anno, durante il quale siamo rimasti sempre in contatto con la maggior parte dei personaggi. Il nostro rapporto con loro è stato ottimo: in quanto soggetti in qualche modo traumatizzati e feriti (dal fallimento del sogno americano, dalle difficoltà economiche, dalla condizione di esuli, dall’età) passato un primo momento di diffidenza tutti loro si sono rivelati ansiosi di condividere le loro storie e, spesso, la loro sensazione di essere stati traditi. In qualche modo crediamo che i nostri personaggi siano stati felici di ricevere la nostra attenzione.
Ci sono realisticamente minacce che possano indurre gli “ospiti” all’eccesso di scrupoli (mura, cancelli, impianti d’allarme d’avanguardia)? Se si, perché avete scelto di relegare questa storia ai margini? Altrimenti, avete avvertito come comprensibilmente umana o come prettamente culturale questa paura dell’estraneo?
Anche se paragonate al resto dell’Ecuador e dell’America Latina le condizioni di sicurezza a Cotacachi sono più che buone, è pur vero che gli espatriati americani sono più volte stati oggetto di furti e rapine. Certamente il tema della sicurezza è uno di quelli più sentiti nella comunità dei Gringos di Cotacachi. A noi è sembrato importante raccontare la loro ansia più ancora che andare a misurare i reali livelli di rischio, perché noi crediamo che le loro grate e i loro muraglioni siano più il frutto di una predisposizione culturale che la risposta a una reale esigenza di protezione. In un certo senso è come se la loro volontà di continuare a essere americani in alcuni casi avesse preso forma per tenere al di fuori tutto quello che è sconosciuto, nuovo e quindi potenzialmente pericoloso.
Nel titolo fate riferimento ai Coen, a McCarthy prima di loro, e in ogni caso a tutta una serie di fatti cronachistici di ordinaria violenza, rinarrati peraltro dagli stessi protagonisti del vostro film che hanno scelto di lasciare l’America esattamente per questo. E’ davvero una citazione per antitesi, o al contrario, riprendendo dei Coen il sarcasmo, negate affermando?
Che cos’è un paese per vecchi se non un’ideale di cartapesta? Forse se lo chiede la donna che, lontana da altri affetti, aspetta sola che suo marito esca dalla sala operatoria.
Secondo più di uno dei nostri espatriati, vivere a Cotacachi è un po’ come si viveva negli USA negli anni ’50, o come nella serie televisiva Mayberry rfd, dove come in una fiaba non succedeva mai nulla di male. Nei discorsi della maggior parte dei nostri personaggi abbiamo colto la preoccupazione per la diffusione incontrollata delle armi da fuoco, dei fatti di sangue e dei crimini violenti negli Stati Uniti, ma più ancora l’idea che il paese in cui hanno vissuto e sono invecchiati sia cambiato in modo incomprensibile e non sia più fatto per loro. Nella nostra esperienza, per molti di loro, il paese per vecchi in cui si sono rifugiati si è rivelato una malinconica via di mezzo tra una nave da crociera e un ospizio a duemilaquattrocento metri di quota.
Che ruolo ha avuto, o pensate possa avere, questa esperienza condivisa nel determinare i vostri individuali percorsi futuri? A che cosa state lavorando?
Il nostro film ha avuto una gestazione lunga e faticosa e siamo felici che finalmente abbia trovato una distribuzione. Ora siamo entrambi ritornati più o meno a tempo pieno alle nostre occupazioni abituali perché abbiamo -come molti- mutui da pagare e figli da mantenere, ma è chiaro che l’avventura di questa regia ci ha lasciato la voglia di ripetere altre volte l’esperienza. Sarebbe certamente bello poter fare un film all’anno e non uno ogni quattro!