Ryan Coogler e Michael B. Jordan di nuovo insieme dopo Fruitvale Station, esordio del primo nel lungometraggio, per scoperchiare la tomba nella quale dieci anni fa Stallone aveva spedito Rocky con il suo Rocky Balboa, esempio di cinema terminale in ogni forma possibile.
Coogler ovviamente si avvale del più classico e logoro degli slittamenti di senso, quello del transito testimoniale, allestendo una rinascita che passa attraverso un vero e proprio processo di reificazione, sostituendo il punto di vista originariamente marginale della comunità black con quello di una nuova fondazione mitologica.
L’avvitamento tra racconto di formazione, educazione cinematografica e vita è tanto evidente quanto sconfortante nel ribadire quella dimensione religiosa sempre uguale a se stessa di cui sopratutto certa critica ha bisogno per garantirsi un barlume di sopravvivenza cognitiva (non certo creativa) nella macchina celibe del mercato.
Il pentimento per non aver mai amato quel cinema al momento giusto non è quasi mai un buon punto di partenza, e se dovessimo individuare un seppur minimo spiraglio, questo non risiederebbe certo nell’intelligenza analitica del critico alla ricerca di riflessi metatestuali, ma nell’onestà e nella fiducia di Coogler per un’avventura che punti a scatenare il boato in sala, l’esaltazione per il momento epico, la replica ad libitum di una mitologia che tra lo schermo e lo spettatore non ha bisogno di troppi intermediari con presunzione di “purezza”.