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Crimson Peak di Guillermo del Toro: la recensione

Ecco di nuovo Il vecchissimo cinema di ombre di Guillermo del Toro, per riprendere una considerazione fatta ai tempi de La Madre di Andrés Muschietti, film prodotto nel 2013 dal regista messicano. Ecco un cinema che dai soliti traumi infantili, invece di sprofondare nell’abisso, rimane sulla superficie di un’arte decorativa, pur attingendo da un ricco serbatoio di influenze che procedono dalla cultura  di genere britannica e italiana per sconfinare nell’immaginario Lowbrow riprodotto più per analogia che secondo gli stimoli di una riflessione capace di sovrapporre perversione e sguardo infantile.

Davvero non ci interessa fare la lista dei riferimenti in eccesso o in difetto perché ci basterebbe in questo caso comprendere in che modo dialogava The Innocents di Jack Clayton con il cinema del suo tempo, compreso quello Free britannico, per verificare quanto sia distante Crimson Peak dallo sguardo contemporaneo, a partire dalla sperimentazione digitale a cui Del Toro attinge in forma carnevalesca, cercando di sottolineare il contrasto tra profilmico e CGI, salvo poi utilizzarlo per effettuare un vero e proprio “travestimento” dall’aura vintage con le soluzioni più avanzate e vicine ai rendering volumetrici o al fotorealismo di alcuni videogame, che fanno il verso alle trasparenze di certo cinema.

Del Toro si addentra in un territorio dove a farla da padrona è la maniera; fanno parte di questo meccanismo tutte le allusioni metalinguistiche che innervano il plot, come quelle legate all’impalpabilità dell’immagine fotografica o ai dispositivi di riproduzione meccanica, fino ad alcuni poster dell’edizione americana (quelli davvero bellissimi) elaborati con i principi dello sdoppiamento stereoscopico rosso-blu quasi per alludere ad un cinema ottico che non è certo quello in oggetto. Tutto questo oltre alla “trovata” dell’osservatore “dentro al quadro” con la figura di Edith Cushing (Mia Wasikowska) che da buona scrittrice è origine e vittima delle proprie ossessioni, scrive il film dall’interno e lo chiude tra i confini di un piccolo universo autoctono, ennesima variazione sull’immaginario Lovecraftiano condotta come un brutto esercizio di stile.

L’argilla rossa, la casa che sprofonda mentre le viscere emergono per mischiarsi con la superficie nevosa assumendo un colore cremisi, la scoperta della sessualità con gli Shunga giapponesi visibili sul taglio dei libri, Edith bionda come Melissa Graps e il colore scuro di Lucille (una notevole Jessica Chastain), la luce e l’ombra, la neve che si macchia di sangue, insomma un campionario di banalità letterarie che non salvano dal crollo il film più pretenzioso tra quelli realizzati da Del Toro.

E le fotografie dei fantasmi, i rulli di cera dove sono incise le voci delle mogli assassinate di Thomas Sharpe (Tom Hiddleston), la scrittura di Edith che passa dalla calligrafia alla riproduzione meccanica tra tasti e inchiostro, sono abbellimenti che non diventano mai discorso, perché non riescono a infondere vita a questo cinema che vive il presente chiuso dentro una stanza di memorabilia.

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