Che si tratti di un meta-western è chiaro fin dall’inizio. Un prete senza più illusioni e fede –impersonato da Robert Forster, già Max Cherry in Jackie Brown di Quentin Tarantino – siede con Parson Henry (David Zellner), un semi-vagabondo, alla fermata di una diligenza postale, situata in un qualche luogo sperduto del west più selvaggio. Nel mezzo di quel nulla, i due aspettano con mete diametralmente opposte: il vecchio prete ne ha abbastanza di convertire selvaggi, vuole andare ad est, tornare a casa; il vagabondo è invece diretto verso ovest, inseguendo il sogno di iniziare una nuova vita e lasciarsi, così, alle spalle il passato e la tragica morte della moglie.
Un po’ come Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot (Samuel Beckett, 1952), sembra che i due siano in attesa di un qualcosa che non vuole arrivare, in questo caso una diligenza postale, in inglese Stagecoach. Che questo sia il titolo in originale di Ombre rosse (John Ford, 1939), tra i film western più celebri della storia del cinema, non è di certo un caso; è come se i fratelli Zellner ci stessero dicendo: se state aspettando un classico film western, qui siete capitati male.
Tra i due si intesse un dialogo dell’assurdo su Dio, indiani e il mito della Frontiera, col prete che a un certo punto afferma: “Il selvaggio west magari può anche andare bene per un nuovo inizio. Fuori, nelle grandi praterie tutto è nuovo, diverso, emozionante. Fin quando non ti rendi conto che ovunque è sempre la stessa merda […], soltanto, le cose vanno a puttane in modo nuovo e affascinante.”
Detto ciò il prelato si alza e, svestitosi, in preda a una disperata follia, corre via, lasciando Parson Henry solo coi suoi abiti.
Ritroviamo quest’ultimo, sotto le mentite spoglie di prete, in una cittadina in sospeso tra praterie e oceano pacifico. Il falso sacerdote giace tra gli scogli, ubriaco.
A svegliarlo è Samuel Alabaster (Robert Pattinson), un giovane agricoltore giunto da lontano e che lo ha ingaggiato via telegramma per celebrare le nozze tra lui e Penelope (Mia Wasikowska), la fanciulla di cui è innamorato e che vive sulle montagne al di là della prateria. Samuel ha con sé un anello nuziale, una chitarra e un pony da miniera di nome Butterscotch, suo regalo per la futura sposa, oltre che la cospicua somma di danaro promessa al falso prete affinché lo segua.
Il viaggio ha così inizio, ma ciò che sembrava essere per Parson un lavoro di normale amministrazione prende presto un risvolto inedito, allorché Samuel rivela che Penelope in realtà è stata rapita e che lui vuole liberarla. Ma i colpi di scena non finiscono qui: sarà proprio vero che Penelope vuole essere liberata da Samuel?
Man mano che il film va avanti, I fratelli Zellner mettono in atto un divertito demontage dell’idea di mascolinità che il genere western sottintende e di cui si alimenta, con una Penelope che di volta in volta si ribella e sottrae ai ruoli stereotipati che i personaggi maschili tentano di affibbiarle, a cominciare da quello di fanciulla che aspetta di essere salvata e sposata dall’eroe di turno.
Certamente Damsel non è un capolavoro, è ad ogni modo un film intelligente e a suo modo coraggioso, che vive di brillanti guizzi narrativi, un cast di giovani star che hanno voglia di mettersi in gioco e della solida fotografia di Adam Stone.