martedì, Novembre 5, 2024

Perdizione di Béla Tarr

E’ possibile leggere nello speciale di approfondimento su Béla Tarr, le analisi su:

Dannazione
Satantango
Le armonie di Werckmeister
The Man from London
The Turin Horse

Con Kárhozat (Dannazione)  dell’ ’87 Bela Tarr  vince il premio come Miglior Film, assegnato dall’Associazione Quebec of Film Critics.

E’ un giovane regista già presente in festival internazionali che ne hanno messo in luce il valore autoriale (Családi tüzfészek 1979, Panelkapcsolat 1982, Öszi almanach 1984) e Kárhozat è il primo film indipendente finanziato dall’Istituto del Cinema e dalla televisione ungherese. In scena c’è un triangolo amoroso in una cornice di immagini ricorrenti nell’universo cinematografico di Tarr: cittadina mineraria di squallidi edifici che sembrano sgretolarsi lentamente sotto la pioggia ininterrotta, cani randagi che frugano nel fango, nebbia che s’insinua nell’anima. La rassegnazione di un mondo dissanguato da una malattia allo stadio terminale, incapace di reagire alla solitudine che priva di senso anche la bellezza e l’amore, è tutta nella figura di Karrer (Miklós B. Székely), un uomo che vive una vita di chiusa disperazione, passa il tempo a fissare dalla sua finestra i carrelli della teleferica pieni di carbone che vanno avanti e indietro senza fine, spuntano da ogni angolo prospettico della città, cigolano monotoni con rumore meccanico:

Sono seduto davanti ad una finestra e guardo fuori inutilmente.Sono decenni che resto lì seduto. Qualcosa mi fa pensare che l’attimo dopo impazzirò. Però non impazzisco e non ho paura di impazzire. La paura di impazzire dovrebbe spingermi a sentirmi legato a qualcosa, invece non sono legato a niente. Ma tutto è legato a me e chiede che io guardi.Vuole che veda l’inconsolabilità delle cose. Devo vedere il cane lurido fradicio di pioggia sotto un cielo di piombo avvicinarsi meschino alla pozzanghera e bere. Vuole che guardi lo sforzo penoso con il quale tutti vorrebbero dire qualcosa prima di cadere nel baratro. Ma non ne hanno il tempo, stanno già precipitando. Vuole che senta che l’irreversibilità delle cose mi farà impazzire l’attimo dopo. Poi, invece, vuole che non impazzisca più.

L’alternativa è il bar Titanik, grossa insegna luminosa che esplode sul muro grigio, interni di grossolana eleganza, contrasto stridente, intenzionalmente accentuato dalla  fotografia di Gabor Medvigy, con l’ambiente esterno, commento sonoro che Mihaly Vig carica di una sorta di malinconia acre, che sa di saudade, la speranza inutile che genera sofferenza, perdita, separazione. Primo progetto di collaborazione con il romanziere ungherese László Krashnahorkai, Kárhozat è il ritratto nichilista di una inerzia letargica in cui i personaggi, spesso anonimi ed enigmatici, appaiono icone di quella deresponsabilizzazione morale che permea la società degli uomini, una bancarotta del vivere che Tarr registra con pazienza estrema e grande misura, dando alla ripresa quel passo lungo che costringe lo spettatore a seguire il ritmo naturale del tempo, lì dove tutto è già presente come sostanza tangibile della vita, visione statica di lente carrellate che percorrono con flusso ininterrotto e lo stesso distacco pareti grige di edifici o strade vuote lucide di pozzanghere, un metaforico sky line di abitanti allineati alle finestre con volto inespressivo a guardare la pioggia o un incontro amoroso consumato meccanicamente, mentre l’occhio della macchina scorre indifferente fra gli oggetti della stanza. Anche quando sembra possibile una tregua, una fuga dal nulla travolti dal “vortice colorato del divertimento” come nel ballo collettivo finale (ma come dimenticare il ballo surreale degli ubriachi di Sátántangó?), e la guardarobiera del Titanik (Hedy Tèmessy) sussurra con voce suadente a Karrer: “Il ballo ! L’insieme d’armonia di mani, gambe, fianchi e spalle che parlano senza parole. Movimenti. Sguardi che sollevano chi balla al di sopra delle preoccupazioni terrene”, le parole suonano stranamente dissonanti con la distanza disinteressata della ripresa, e l’eccitazione collettiva diventa artificiosa e anestetizzante. (continua nella pagina successiva…)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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