Superficie e pezzo di bravura. Questi gli elementi fondativi del cinema di Rodrigo Cortés. Non ci spaventa in tal caso il passaggio del regista spagnolo ad una produzione marcatamente mainstream, perché il problema non ci sembra quello, quanto la fragilità delle idee e di tutto l’impianto del suo cinema, che in questo caso franano miseramente. Cortés recupera persino Chris Sparling, lo sceneggiatore di Buried e paradossalmente asciuga molto le elucubrazioni dei due film precedenti, inserendosi nel filone young adult, non solo per il romanzo di Lois Duncan da cui il film è tratto, ma anche per il coinvolgimento diretto di Stephenie Meyer, tra i produttori del film insieme al sodale Adrián Guerra e a Meghan Hibbett e Isaac Klausner, entrambi provenienti dal contesto della saga Twilight.
Katherine ‘Kit’ Gordy (AnnaSophia Robb) è una ragazza difficile. Il suo comportamento ribelle costringe i genitori, d’accordo con i dirigenti scolastici, a inviarla in una remota località di montagna dove domina la scuola Blackwood, un college diretto dall’affabile quanto rigida Madame Duret (Uma Thurman) e affidato alle cure didattiche di pochi insegnanti, incaricati di far emergere da un gruppo limitato di ragazze difficili, l’eccellenza nell’arte, nella musica, nella matematica e nella letteratura.
Su tutto aleggia l’ombra delle menti più brillanti che furono, una vera trasmigrazione di energia da un mondo all’altro che avrebbe dovuto consentire a Cortés di lavorare in modo originale sull’essenza stessa del racconto di formazione, nella relazione tra ricordo, memoria e presente in un’era ormai post-digitale.
Rispetto alle complesse e articolate pulsioni che già da solo il franchisee più noto e sviluppato dalla mente di Stephenie Meyer è stato in grado di attivare, con risultati di diversa intensità, il tentativo di creare un ponte tra la vecchia e la nuova generazione di narrativa per adolescenti, sembra favorire un immaginario visivo di secondo grado molto più vicino agli elementi di superficie che caratterizzano i romanzi della Hartford che allo spirito spesso feroce della Duncan.
Cortés ce la mette tutta a costruire un’atmosfera che evochi in qualche modo alcuni titoli del cinema internazionale legati a quel delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta più vicini temporalmente alla scrittrice di “Summer of Fear”, citando in egual misura Jack Clayton (The Innocents), Robert Wise (The Haunting), Narciso Ibáñez Serrador (la residencia), senza riuscire a mantenere la stessa ambiguità tra visibile e invisibile.
Da questo punto di vista il tentativo di Cortés ci sembra debolissimo, soprattutto se consideriamo il precedente “Red Lights” che si interrogava in modo sin troppo esplicito sulla posizione di frontiera dei dispositivi di riproduzione dell’immagine in un contesto di continue ri-mediazioni. L’evanescenza del ricordo, la memoria fotografica e la connessione con il mondo dei morti su cui si interroga Kiyoshi Kurosawa nel bellissimo “Le secret de la chambre noire” sembrano in un primo momento affrontati da Cortés dall’altro lato della stessa prospettiva. Lungi da essere ancora e sempre una questione legata ai suoi elementi strumentali, la riflessione sul digitale è oggi più che mai un superamento della barriera tecnologica, alla ricerca di una nuova idea di “presenza”.
Stato della mente, elemento di cultura e relazione, il digitale si interroga sulle connessioni. I fantasmi degli artisti defunti che possiedono le giovani ospiti di Blackwood, stabiliscono un contatto con il mondo delle immagini mediante quella maggiore o minore evanescenza che caratterizzava la fotografia del secolo scorso; su questo persino James Wan è un autore capace di individuare formidabili cortocircuitazioni dell’immagine.
Senza un riferimento esplicito ad altre forme di deperimento e corruzione dei supporti, ai glitch e al trasferimento dei dati, Madame Duret esprime spesso la necessità di stabilire un contatto, rivelando la maggiore forza o debolezza della “connessione”. Piccoli espliciti appigli che si servono di alcune immagini, citazioni e stereotipi del cinema e della letteratura fantastica, nel tentativo di traghettarli verso una nuova avventura della psiche dove la relazione tra passato storico e presente diventa il centro di un passaggio traumatico.
Tutti i cellulari delle ragazze vengono ritirati all’ingresso una volta varcata la soglia di Blackwood, l’immersione nel passato deve essere totale, a partire dalla presenza labile della corrente elettrica nella “mansion”, fino al registratore a bobine che il figlio della Duret (David Elliot) utilizza per catturare le performance pianistiche di Kit sotto possesione.
La conciliazione con un mondo creativo, culturale e psichico che non potrà più tornare, sembrano dirci Cortés e la Meyer attraverso la loro rilettura della prosa della Duncan, risiede nel riconoscerne l’eredità e il punto in cui questa sia in grado di superare ogni filtro tecnologico, attraverso una rilettura che recuperi diversamente il concetto attivo di “presenza” e la propria collocazione nel mondo.
In forma più semplice e meno elucubrata di “Red Lights”, Cortés continua con una certa ostinazione una riflessione che rimane salda al centro del suo cinema, nel rapporto tra luce e buio, immagine e artefatto, visibile e invisibile, entro un contesto di trasformazione della stessa immagine digitale.
Tra tutti questo è il suo film squisitamente e filosoficamente post-digitale, ma anche il più debole da un punto di vista delle modalità in cui confluiscono numerosi stimoli, da quelli più superficiali legati a forme e modi della cultura young adult, fino alla semplice banalizzazione di un immaginario che non trova, come accade nel già citato Kurosawa, quel punctum capace di evidenziare il vuoto, lo spaesamento e il terrore panico in una difficile stagione di passaggio, tra collettivo e individuale.