giovedì, Novembre 21, 2024

Dark Night di Tim Sutton: la recensione in anteprima

Just another dreamer waiting for another dreamer
Just another lover looking for another lover

E’ il canto del cigno di Maica Armata nel Dark Night diretto da Tim Sutton, presentato nel 2016 al Sundance, vincitore, nello stesso anno, del Premio Lanterna Magica a Venezia, finalmente nelle sale dal 1° marzo grazie a Mariposa Cinematografica e 30Holding.

Il Massacro di Aurora è la punta dell’iceberg, il più palese dei riferimenti, per un film che, tragicamente attuale e riflesso puntuale di una realtà esperita con ripetibilità costante, coniuga trasversalità di contenuti all’essenzialità del racconto visivo.

Con un puro occhio sul mondo Sutton costruisce un’opera quanto mai eloquente, un’amaro storytelling che avanza a forza di immagini in seno a chi la fruisce.

Denuncia socio-politica, affresco di miseria umana, riflessione sul ruolo della settima arte, Dark Night si apre proprio su una pupilla nervosa, illuminata a intermittenza da quello che si direbbe essere uno schermo.

Ma lo spettacolo è terminato; in un giorno qualunque, i drammi ordinari, che si vorrebbero sopiti sotto a una maschera da Cavaliere Oscuro, entrano in cortocircuito nel dramma stra-ordinario che ha luogo in un cinema, per l’occasione autentico teatro del reale, di una violenza plateale (suggerita, mai mostrata), frutto ennesimo di un fisiologico vuoto siderale.

Non c’è incipit, non c’è coda; è una storia, sempre la stessa, che fluisce in loop. Sutton sdoppia il climax collocandolo in apertura e chiusura del film, mimetico della circolarità degli eventi; nel mezzo la psicosi quotidiana.

Orfani del paese che li ha gettati nel mondo, eterni schiavi della più grande promessa mai mantenuta: il sogno americano. Sono le figurine al centro del mirino, uccisi ogni giorno al di là di ogni gesto spettacolare. Tanti, appena tratteggiati eppure così vividi, unici e al contempo sovrapponibili: una madre e suo figlio durante una seduta d’analisi, una coppia non più in grado di dialogare, una maniaca del fitness e dei selfie che evoca il sentimento del contrario, ondivaghi skaters senza meta, giovani ragazze dalle ali tarpate, un reduce di guerra, e lui, il killer, che è lui ma potrebbe essere un altro, uno qualunque, dentro e fuori campo; la tragedia è il prodotto di una schizofrenia collettiva.

E laddove le armi sono alla mercé di tutti, “take aim” non è solo insegna di un poligono di tiro, ma colpevole invito a centrare il baratro.

La macchina da presa segue senza esitazioni il loro affannato, spesso inconsapevole incespicare, lucida freddezza straniante di fronte a un abisso esistenziale che genera mostri, aliena le coscienze.

Nulla di eclatante accade, o meglio, tutto spaventosamente scorre; ogni inquadratura è pervasa da un profondo senso di inquietudine, in ogni sequenza è ravvisabile il germe della catastrofe.
Una radio che parla, qualcuno che passeggia, la calma piatta di un quartiere visto dall’altro, disegnato a tavolino per ospitare cittadini impersonali, improvvise urla precorritrici, fino alla più emblematica e dolorosa delle immagini: un fucile che con precisione chirurgica fa capolino da una finestra, prende la mira su un raro momento di luce.

“You are my sunshine, my only sunshine”, intonano due ragazze accompagnate dalle chitarre. C’è una malinconia nelle voci, quasi sapessero che in quell’universo non c’è spazio per loro.

Veronica Canalini
Veronica Canalini
Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.

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