Scott Stewart, dopo le atmosfere fantasy horror dei suoi primi due film, Legion e Priest, passa alla Blumhouse e porta avanti quella piccola forma di osservazione antropologica sull’ambiente famigliare che bene o male contraddistingue tutte le ultime produzioni di Jason Blum, da La notte del giudizio di James DeMonaco, passando ovviamente per Sinister di Scott Derrickson fino al più recente lavoro di James Wan, Insidious 2; e che ben si inserisce in un contesto storicamente preciso del cinema horror statunitense, recuperato recentemente un po’ ovunque, basta pensare a titoli come You’re next e lo stesso The Conjuring, con tutto il suo orpello “vintage” annesso.
Daniel (Josh Hamilton) e Lucy Barrett (Keri Russell) vivono con i loro figli in una delle classiche villette della middle-class americana; mentre il primo non riesce a superare alcune difficoltà di troppo in ambito professionale, la moglie lavora per un’agenzia immobiliare vendendo case agli acquirenti della zona. Stewart punta sin da subito ad evidenziare tutti i conflitti interni al nucleo dei Barrett, sopratutto attraverso la difficile comunicazione tra coniugi e all’influenza che questa esercita sul comportamento dei figli, costruendo una tensione invisibile che appartiene, almeno per tutta la prima metà del film, al dramma famigliare e al racconto di formazione, quest’ultimo assimilato alla figura di Jesse Barrett (Dakota Goyo), il figlio maggiore della coppia, che il regista americano segue con una certa attenzione in una serie di piccoli episodi che riguardano la scoperta del sesso, le incomprensioni con il padre, i giochi sgangherati con l’amico Kevin, quello che a un certo punto lo inseguirà nel bosco brandendo un fucile ad aria compressa.
È all’interno di questo contesto che Stewart tinge a poco a poco di scuro la vita quotidiana dei Barrett, introducendo una serie di eventi inspiegabili nel teatro chiuso dell’abitazione famigliare, che in parte strizzano l’occhio a certo horror degli anni ’80, da Entity di Sidney J Furie a Poltergeist di Tobe Hooper, e allo stesso tempo cercano un contatto con una superficie metafisica, citando esplicitamente titoli come “E venne il giorno” e Take Shelter
Stewart comincia quindi a lavorare sul confine tra le teorie della cospirazione e la follia quotidiana che trascina gli individui a compiere terribili azioni di violenza domestica; un aspetto indubbiamente interessante che in una forma volutamente fuori controllo, è presente nella piccola parodia di “inland empire” architettata da James Wan e che qui diventa sempre meno esplicito nella confusione tra realtà immaginata e realtà empirica, basta pensare a tutti i segni di violenza non vista che attraversano il film, come per esempio i lividi sul corpo del piccolo Sam (Kadan Rockett) oppure all’incontro dei coniugi con Edwin Pollard (J.K. Simmons), l’ufologo che dovrebbe rivelar loro le ragioni di una tentata abduzione aliena, e che il regista americano filma con quel relativismo cognitivo che da L’Esorcista in poi, racconta l’intrusione violenta dell’irrazionale nei luoghi della famiglia occidentale.
Pollard in fondo non ha nessuna soluzione per i Barrett, racconta loro fenomeni comparati in anni di ricercha, mostra la fisiologia dei “Grigi”, razza aliena che probabilmente studia gli umani come fossero cavie, ma alla fine li spinge a comprare un cane, armarsi di fucili, chiudersi in casa come il Mel Gibson di Signs, e combattere la disgregazione famigliare rimanendo uniti mentre fuori impazziscono le celebrazioni per il 4 luglio.
Va da se che Stewart giochi con un materiale volutamente ambiguo, senza mai mollare la presa; tutti gli eventi che precedono il rapimento di Jesse rimangono sempre sul confine tra manifestazione paranormale e immaginazione intima, e tra queste immagini di morte, trova il suo posto anche quella di una famiglia che autodistrugge se stessa per una perdita progressiva della fede nel nucleo.
Come in tutte le produzioni Blumhouse, nonostante Dark Skies sia indubbiamente sopra la media per questo lento, ipnotico sconfinamento di tutte le istanze “horror” nello spazio del dramma domestico, si ha la sensazione di aver a che fare con un giochino retrò fatto apposta per rimanere dentro il suo involucro cinefilo e capace di parlarci delle nostre inquietudini quotidiane, scalfendone lievemente la superficie.