David Lynch: The Art Life è, citando Joyce, un ritratto dell’artista da giovane. Romanzo-documentario di formazione per immagini, il film presentato allo scorso festival di Venezia segue il dettato delle memorie, dall’infanzia alle soglie della prima vita adulta, di David Lynch, che con voce lenta e ipnotica cadenza i mo-menti di un diario visivo che alterna i suoi dipinti alla quotidianità in studio insieme alla piccola Lula, l’ultima figlia: le opere e i frammenti del processo creativo si alternano in un libero viaggio autocondotto nel mondo psichico, cosciente e onirico, di uno dei pochissimi cineasti di culto della contemporaneità.
Per chi ama il Lynch regista, identità profondamente avviluppata a quella di pittore, il documentario è come un manuale anti-accademico che propone le chiavi di lettura giuste all’opera del maestro: se la cinematografia lynchiana è caratterizzata da un senso di catastrofe acquattato dietro l’inoffensivo del quotidiano e del domestico, da questo film apprendiamo che è nel calore di un’infanzia felice nel Nord-Est americano che inumidisce e vivifica il seme di un inconscio prepotente che manifesta precocemente il bisogno di compensare l’idillio con il mostruoso, la sicurezza dell’accudimento con l’angoscia dell’ignoto.
Freud per primo spezzò irreversibilmente l’identificazione automatica tra psichico e cosciente: The Art Life è un documentario interessante, anche per i non estimatori del genio atipico e personalissimo di Lynch, proprio perché, freudianamente, ripercorre una maturazione psichica inconscia, la necessità della sporcizia in un’esistenza percepita irrazionalmente come troppo candida. «È il passato che colora le idee», sostiene il pittore e regista, osservando come qualsiasi ispirazione riemerga dal passato e dal passato prenda corpo.
La madre, ricorda Lynch, ebbe su di lui un’intuizione irripetibile: «siccome vedeva che passavo tutto il giorno a disegnare, si rifiutò di comprarmi quei quaderni da colorare che, invece, regalava ai miei due fratelli. Sentiva che per me sarebbe stato limitante, quasi come uccidere la mia creatività».
Una creatività che ha sempre se-guito un estro proprio, l’istinto di usare l’arte come terapia e come surrogato: lo spazio di una tela, il microcosmo fittizio di un film che riproduce i due isolati nei quali era racchiuso il suo mondo di bambino, divengono così laboratori d’ossessioni e digressioni visionarie manipolate e tradotte in rappresentazioni surrealiste, al limite del disturbante, da sempre la cifra di una ricerca insieme pittorico-plastica e cinematografica dell’anomalia dentro la gabbia della normalità e del ‘pulsionale’ castrato dall’autodisciplina e dall’autocensura.
Lynch racconta di quando cominciò a concepire quello che sarebbe diventato The Alphabet, il cortometraggio del ’68 che gli permise di vincere, in un momento di grande difficoltà economica, una borsa di studio dell’American Film Institute e di affermarsi come regista sperimentale: la sua idea originaria era di lavorare su uno split screen che immaginava per un terzo destinato dall’animazione e per due terzi occupato da un oggetto inanimato. La pellicola, tuttavia, si era corrotta e tutto il rullo risultava sfocato. Il regista ricorda di una strana sensazione, di turbamento misto ad eccitazione, come l’affiorare di un’intuizione, di un’alternativa fortunata: «a volte bisogna fare un gran casino e commettere grossi errori per trovare quello che si sta cercando». Da un errore grossolano, sarebbe nato così un corto che anticipa le atmosfere alienanti, ansiogene e distorte del Lynch più maturo, trasfigurazione di un trauma biografico – il rifiuto della lettera e la preferenza riservata all’immagine – nel senso di una rappresentazione da incubo degli effetti dell’educazione primaria sulla psiche dei bambini, avviati dalla scuola, per la vita, alla repressione e al conformismo.
The Art Life, in effetti, non tradisce, ma valorizza la repulsione lynchiana per tutto ciò che è, in senso lato, scolastico ed eppure segue una traccia, quella di un dipanarsi lineare degli anni e degli eventi sino all’approdo di Eraserhead, la sua «esperienza più felice», non solo strumento d’accesso alle produzioni ‘commerciali’, ma momento di una definitiva consapevolezza di quanto il cinema rendesse tutto ciò che popolava la sua mente reale e tutto ciò che stimolava la sua immaginazione possibile: vi era, infine, e per Lynch fu la massima allegria e la massima liberazione, una magica, vincente, compenetrazione tra arte e inconscio.