Sarajevo, 28 giugno 2014. Cent’anni prima il non ancora ventenne Gavrilo Princip assassinava l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, accendendo la miccia che avrebbe portato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la fine dell’età dell’innocenza per un’Europa all’apparenza ordinata e composta, ma furibonda ed esasperata al di là della superficie.
Cent’anni dopo, all’Hotel Europa, tutti stanno aspettando un comitato di rappresentanza dell’Unione Europea pronto a celebrare lo storico anniversario: i manager per scimmiottare una magnificenza inesistente; gli operai per inscenare uno sciopero a favor di sensazionalismo mediatico, nella speranza che i riflettori accessi li risarciscano di stipendi mai pagati.
Jacques Weber, attore francese e ospite d’onore, chiuso nella sua stanza d’albergo, prova il monologo che il filosofo Bernard Henry-Lévy ha scritto per ridestare le coscienze addormentate di un Vecchio Continente nauseato dalla politica ideologica, ma non del tutto emancipato dalla stessa.
‘Death in Sarajevo’, diretto da Danis Tanović, premio Oscar nel 2002 con il primo, indimenticato, lun-gometraggio ‘No Man’s Land’, è un film-sineddoche che fa dell’hotel in cui – piani alti e piani bassi, sot-terranei e tetto – tutto succede un correlativo oggettivo del macrocosmo relativo, la Bosnia e i Balcani, e di quello assoluto, l’Europa e il mondo intero.
Qualcuno potrebbe dire che è un’allegoria facile e trita e che il film ne risente scadendo nella convenzionalità, ma, anche se così fosse, la chiarezza della figura applicata alla lettera non mortifica né appiattisce una riflessione ‘politologica’ in realtà estremamente complessa che lo spettatore può eludere o accogliere, a seconda della propria volontà e dei propri strumenti di lettura.
L’opera riflette, nella stratificazione, la complessità dell’oggetto osservato, il suo albergo all’esterno imponente e fatiscente all’interno, un’architettura a più livelli come metafora di un’umanità segregata dietro un decoro che blinda, ma non neutralizza il caos ingarbugliato dall’abitudine di mistificare e dall’acquiescenza interiorizzata rispetto all’ordinario esercizio di sopraffazione, sia questa sessista o classista, legalizzata o criminale.
A provare a capire la società e a tenere le chiavi per disserrare il segreto custodito dalla Storia, è una giornalista dal piglio deciso che, sul tetto, sta realizzando una trasmissione televisiva intorno al mistero irrisolto dell’identità di Gavrilo Princip: terrorista o eroe nazionale, oppressore o liberatore, carnefice o vittima del suo stesso idealismo? Il furioso litigio della donna con un ‘secondo’ Gavrilo Princip, un ragazzo della provincia serba omonimo del primo che lei intervista per ultimo, è il cuore che vibra di un film che da quello scontro verbale, potentemente erotizzato, trae una linfa che non solo ne accelera il ritmo, ma anche la decodifica simbolica.
Un uomo e una donna si piacciono e si desiderano, ma un’estenuante tensione li tiene al riparo dal compimento del gioco di seduzione, da una sua risoluzione: come Serbi e Bosniaci parlano esattamente la stessa lingua, ma fingono di non capirsi.
La pulsione di morte ha la meglio su quella erotica o, forse, freudianamente, sono la stessa cosa. ‘Death in Sarajevo’ è, così, un film denso e intelligente che non si accomoda sul cerebralismo né si fa mai didattico, nonostante il suo impianto scopertamente metaforico: è intellettualmente stimolante, ben recitato e ben costruito nei congegni del thrilling, nella sua elettricità sottocutanea, anche se il regista paga il suo eccesso di sapienza cinematografica con il sacrificio della freschezza (e dell’audacia) di estetica e segni.
Merita, in ogni caso, di essere non solo visto, ma anche meditato a lungo.