«Hanno, Lorenzo, molti tenuto e tengono questa opinione: che e’ non sia cosa alcuna che minore convenienza abbia con un’altra, né che sia tanto dissimile, quanto la vita civile dalla militare.»
Così esordisce Niccolò Machiavelli nel proemio all’opera Dell’arte della guerra, in una dedica al patrizio fiorentino Lorenzo di Filippo Strozzi. Una concordanza tra vita civile e vita militare, alla base di un lavoro che ha tra i suoi intenti primari quelli di onorare e premiare le virtù, invitare i cittadini ad amarsi l’un l’altro senza disprezzare la povertà, e soprattutto «stimare meno il privato che il pubblico».
Luca Bellino e Silvia Luzi si servono dello stesso titolo per un documentario che riflette, o meglio, esplicita i medesimi concetti a cui alludeva lo scrittore toscano. Una ricostruzione degli eventi che fecero la storia in quell’incandescente agosto del 2009, quando quattro operai della storica Innse di Milano salirono su un carroponte come atto di protesta per impedire la chiusura e smantellamento dello stabilimento. Il loro atto di resistenza portò al favorevole riscontro da parte dell’opinione pubblica, attenzione da parte dei media e al finale ottenimento dei loro propositi. Un esempio che rimarrà per sempre nella storia della resistenza operaia.
Il metodo espressivo che adottano gli autori combina la diretta testimonianza dalle vive voci dei quattro protagonisti con la ricostruzione delle vicende attraverso il repertorio audio-video dei vari media e i filmati amatoriali che diffusero la notizia. Una convergenza multimediale, un intreccio tra linguaggi, che ricostruisce per frammenti l’identità della classe operaia, così come negli intenti dei quattro guerrieri proletari. È una lotta di classe vera e propria quella portata avanti dagli operai della Innse, oltre il semplice interesse nel non rinunciare al proprio salario. Quello che i testimoni e i protagonisti raccontano è una battaglia ideologica. Una non accettazione di mezzi termini, di negoziazione, una faziosità estrema che vede da una parte la chiusura definitiva e dall’altra la riapertura, così come in bilico tra la vita e la morte è il militare in guerra. È la concezione rivoluzionaria di Mao che anima le imprese dei prodi operai. Un sollevamento della propria voce che «non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia o cortesia», perché «la rivoluzione è un atto di violenza».
Un senso di guerriglia accentuato anche dalla manipolazione estetica degli autori: una musica marziale fa da sottofondo all’arrivo delle volanti di polizia, un montaggio alternato contrappone il gruppo degli operai in protesta sotto il vessillo di un cartellone di protesta e i poliziotti armati di scudi e manganelli, il conflitto scoppia tra urla e feriti; una guerra vera e propria. La voce narrante degli attori di quel conflitto sembra la testimonianza di reduci dal fronte, ritornati vittoriosi e più consapevoli, dopo aver assistito e patito gli orrori bellici. Nessuna esagerazione, nessuna iperbolica metafora, ma guerra reale. Una resistenza per la vita contro il padrone, quel nemico «che appena può ti ruba la vita, e se non subito, te la ruba lentamente, tutti i giorni» come sostiene Vincenzo Acerenza, caposquadra dei quattro. Una guerriglia quotidiana, dal punto di vista sindacale, dove gli accordi diventano tregua tra due eserciti che si combattono, «però l’idea di fondo è che il padrone, come controparte, vada eliminato».
Facile è capire il perché questo gesto abbia fatto la storia e sia stato preso come esempio da altri lavoratori insoddisfatti. La condizione degli operai della Innse era quella di disillusione nei confronti del sindacato, di quella resistenza ormai istituzionalizzata e fatalmente scevra della loro originaria identità. L’atto di ribellione più efficace non poteva che nascere dal semplice operaio che deluso ma determinato si sostituisce ad ogni forma di potere. Una squadriglia che instaura al suo interno le inevitabili regole dell’esercito in lotta, ma che non si lascia incantare dal fascino del potere e della prevaricazione. Un’ideologia che accomuna questi oppositori dell’industria all’esercito di schiavi di Spartacus. Un paragone non azzardato, se si considera che quella di questi operai è la presa di coscienza della loro condizione di schiavitù, come loro stessi confessano. L’episodio raccontato da questo documentario si inquadra oggi come il simbolo della crisi italiana, una crisi da cui sembra esserci via di fuga, ma solo se si è disposti a lottare, fino a rischiare la propria vita, come in guerra. Perché quello che anima questo trattato (che ha perfino nella sua struttura con divisione in capitoli un approccio manualistico) è un odio viscerale, antico, per la diseguaglianza sociale. Non odio individuale, ma strutturale, contro le ingiustizie di una società classista. E allora sarebbe meglio seguire il consiglio di Machiavelli e riuscire a stimare più il pubblico che il privato; contro la speculazione edilizia, contro gli interessi del singolo, contro gli abusi di potere, come fecero i dipendenti della Innse, che questo documentario assurge a figure simbolo, da emulare.