[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f4bc42″ class=”” size=””]Demons è oscuro, grottesco e assurdo, con un senso dell’umorismo meravigliosamente malvagio. Il film diretto da Daniel Hui è un viaggio allucinatorio nel cinema sperimentale nel quale la manipolazione sadica di un regista teatrale nei confronti dei suoi attori diventa l’espediente per esplorare la violenza che alberga in ognuno di noi e nelle relazioni stesse che costruiamo[/perfectpullquote]
Hui, che inizialmente ha pensato a questo film come un adattamento dell’omonimo romanzo di Dostoevskij, ha lasciato che la pellicola si trasformasse in qualcosa di sempre più autobiografico e personale, dando al protagonista il suo nome. Sembra che la sua più grande paura sia poter essere vittima e carnefice allo stesso tempo, le persone che commettono atti di violenza spesso non sono intenzionalmente crudeli ma non si preoccupano di abusare della propria autorità, del proprio potere inconsapevoli degli effetti che procurano. Questo accade in Demons, Daniel, interpretato da Glen Goei, uno dei registi teatrali di maggior successo di Singapore, si dimostra un uomo prepotente e violento capace di trasformare la vita di Vicki, un’aspirante attrice, fragile e sensibile, in un
Le diagonali e l’espressione sui volti degli attori emanano un’atmosfera di isteria e follia, come la sequenza in cui Vicki è costretta a indossare un pesce morto come un semplice cappello, una situazione dolorosamente imbarazzante e scomoda per lei, ma estremamente divertente per gli altri due personaggi al tavolo. Come in uno specchio non possiamo fare a meno di guardare l’azione con prospettive diametralmente opposte.
Se per Daniel maltrattare le attrici è parte integrante del metodo, a un certo punto Vicki diventa il boia, una svolta sorprendente, uno switch che cambia le carte in tavola. E se il linguaggio fino ad ora è stato la dimostrazione di come sappia definirci, determinando i nostri pensieri e il nostro modo di comunicare lasciando Vicki chiusa in una sorta di mutismo, la scena che vede Daniel allo scontro frontale con le donne della fondazione che finanziano il suo operato è surreale e divertente e demarca il cambio di scenario.
Improvvisamente è come se fosse escluso dalla società che dominava, lì in quella stanza mentre tutti ridono e si capiscono lui è smarrito, attonito, inconsapevole e privo dei mezzi che fino a quel momento ha maneggiato. Cacciato fuori dal mondo stesso che l’aveva nutrito.
I rumori macabri, il suono stridulo di un graffio che non si conclude e i tremori che evocano le porte dell’inferno si aprono, Daniel affonda, su un enorme palcoscenico, in cui la storia trova il
C’è qualcosa di tremendamente classico in questa parabola che da dramma si trasforma in horror, per poi concludersi in una satira spietata, in un’osservazione disorientata del mondo dell’arte.