giovedì, Novembre 21, 2024

Denmark di Kasper Rune Larsen – Berlinale 68, Generation: recensione

Il debutto nel lungometraggio di Kasper Rune Larsen è ambientato nella provincia danese, tra il distretto di Viby, parte sud-occidentale di Aarhus, nella città di Fredericia e a Skanderborg, all’interno del Sølund musik festival, per una sequenza che vede i due protagonisti incontrare un membro della comunità Death Metal. Una scelta che evidenzia una geografia più marginale rispetto agli interessi del cinema locale, troppo spesso identificato con la sola città di Copenaghen a partire dalla sua rinascità creativa a metà degli anni novanta.
Di quel “voto di castità”, il giovane regista danese conserva alcuni elementi esteriori, tra cui l’utilizzo della camera a mano e la totale assenza di commento musicale, ma l’empatia quasi autobiografica che stabilisce con i propri attori, sembra collocarsi anni luce rispetto al cinismo di un certo sguardo pretestuosamente antropologico.

La dimensione è quella del dialogo e del gioco, tanto che “Denmark” lo si percepisce come un film in fieri, volutamente poco “scritto” in termini di sceneggiatura e lasciato quasi completamente alla libertà degli attori di stabilire una relazione tra il gesto e lo sguardo.
“Denmark” è quindi un film che “non parla”,  coinvolgendo lo spettatore nelle scelte dei protagonisti.

Norge (Jonas Lindegaard Jacobsen) è un giovane di 22 anni, ha lasciato la scuola con il desiderio di lasciare la provincia per trasferirsi a Berlino o nella più vicina Aarhus; insieme a Myre (Jacob Skyggebjerg) scrive canzoni rap e bilancia la sua vita tra qualche modesto party a base di sballo e l’assistenza per un ragazzo portatore di handicap che aiuta con sincero affetto.

La sedicenne Josephine (Frederikke Dahl Hansen) entra improvvisamente nella sua vita dopo un pomeriggio passato a fare l’amore e il conseguente stato della ragazza, incinta di Norge.
In un modo o in un altro, Josephine diventa la spinta del cambiamento per Norge attraverso il riconoscimento dell’alterità e la possibilità di sostenere la ragazza nell’ipotesi di un aborto.

Se da una parte tutte le ingenuità di un progetto di laurea sono evidenti nell’opera prima di Rune Larsen, proveniente dai solidi studi della scuola indipendente Super 8, è necessario riconoscergli un certo coraggio nel tentativo di superare certe stereotipie “dardenniane”, rompendo quello schema causale che spesso è alla base di una cinematografia fortemente programmatica nonostante i presupposti estetici.

Rune Larsen sembra fregarsene, positivamente, seguendo maggiormente le suggestioni libere di un cinema elegiaco, dove la meraviglia per i gesti e la semplicità dialettica, sono al servizio di un fluire dello sguardo che in qualche modo ostacola l’affermazione del dispositivo, spostando la riflessione altrove.

In questo senso “Denmark” è spesso vitalmente fuori fuoco rispetto ad alcune regole del cinema d’esportazione, perché necessariamente “piccolo” e onesto, anche per quanto riguarda i mezzi impiegati e alcune scelte obbligate.

Rune Larsen stesso lo ha definito come una “dichiarazione d’amore per la gioventù disperata“.
E nell’amore di questa generazione senza padri né madri si trovano alcune risposte apparentemente semplici sullo stato di salute di un paese, osservato a partire dalla gioventù che popola la provincia.
A dispetto del titolo, assolutamente geniale, Rune Larsen si guarda bene dal fornirci un pamphlet sul fallimento della visione socialista danese, tanto da relegarne il peso di un’analisi con una battuta beffarda messa in bocca a Norge mentre scherza con l’amico portatore di handicap: “sei il prodotto tipico del welfare state”.

Il giovane regista danese non sembra certamente incline a fidarsi pedissequamente del sogno solidarista di N.F.S. Grundtvig. Pur mantenendo uno sguardo positivo, è proprio in questa vicinanza tenerissima ai suoi attori che riesce a descrivere l’incertezza e il vuoto che affligge il contesto suburbano.

Rune Larsen inquadra i suoi giovani attori dopo una sessione di skateboard, durante una partita di biliardo, nella loro ricerca del piacere o in una naturalissima tendenza allo sballo attraverso la quale non si attarda con alcuna inutile analisi sociologica, perché non indugia mai sui dettagli più morbosi, preferendo l’umanità degli attori coinvolti.

Questi sono sorpresi mentre cercano di scorgere un sogno, mentre il futuro sembra già delineato da un’architettura che li inghiotte, tra cemento e graffiti.

In questo appiattimento dell’orizzonte possibile, Josephine ha un solo desiderio: rivelarsi come fresca ventata di gioventù.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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