domenica, Novembre 24, 2024

Dior and I di Frédéric Tcheng: la recensione

La prima collezione di Christian Dior vede la luce nel 1947, un anno  dopo la separazione del grande stilista dall’atelier di Lucien Lelong per fondare la Maison al numero 30 dell’avenue Montaigne a Parigi. È un anno di lavoro febbrile quello che precede la sua prima uscita ufficiale ed è l’inizio di una vera e propria rivoluzione “visiva” nel campo dell’haute couture. Rispetto allo stile militare degli anni 40 che squadrava la figura femminile, le donne ridisegnate da Dior enfatizzano la morbidezza recuperando un concetto di femminilità in parte classica, sostenuta da un’esuberante abbondanza di stoffa, segno di una nuova era che si sostituisce in termini economici e creativi alle ristrettezze del dopoguerra.

È solo l’inizio di una sperimentazione vera e propria sulla forma che culminerà sette anni dopo con l’esplosione economica dell’impero Dior, l’apertura di boutiques a New York, Caracas e Londra e il lancio di collezioni innovative e criticatissime come la linea H, dove l’amore per l’arte del couturier francese diventa sempre più evidente nello studio delle linee, dei giochi simmetrici e di vere e proprie sculture modellate sul corpo femminile, fondate sul concetto di Trompe l’oeil.

A più di 60 anni di distanza, lo stilista belga Raf Simons viene introdotto come direttore creativo della Maison Dior e presentato al centro nevralgico della struttura; comincia così il film di Frédéric Tcheng, con le presentazioni di rito e l’emozione tangibile di Simons, uomo dalla creatività vulcanica, ma assolutamente schivo rispetto alla dimensione mediatica di cui la Maison non può fare a meno.

Dior and I è un vero e proprio dialogo a distanza, non solo con una tradizione che ha codificato le basi del proprio linguaggio nei dieci anni di attività di Christian Dior, ma anche attraverso la conversazione ideale tra l’attuale direttore creativo e il fondatore storico.

Se Tcheng costruisce il film facendo interagire i filmati d’archivio con una vicinanza intima alla prassi del gruppo attuale di lavoro, direttamente all’interno dell’atelier e mostrandoci da vicino i processi creativi, sono le stesse parole di Christian Dior che offrono un senso alla storia integrale della Maison.

Simons a un certo punto sembra posseduto dalle parole di Dior, la lettura delle sue memorie è intollerabile per lo stilista belga, perchè le sente troppo vicine al suo modo di pensare, allo stesso tempo, oltre al cortocircuito emotivo,  Tcheng ce lo mostra nella sua personale interpretazione creativa di quell’eredità perché se la passione per la storia dell’arte accomuna i due couturier, quella del nuovo direttore creativo non passa direttamente attraverso la prassi diretta del disegno, ma si esprime con un complesso studio comparativo dove il confronto visuale e l’utilizzo di un numero ipertrofico di immagini diventa il propellente principale che conduce all’organizzazione del lavoro di squadra.

Da Rothko ai Flower’s Puppy di Jeff Koons, due estremi dell’ispirazione di Simons, l’arte del belga acquisisce a traduce la tecnica pittorica come intervento diretto sui materiali e l’allestimento di ambiziose installazioni floreali, come esempio di una direzione artistica che dall’haute couture si espande alle competenze di un vero e proprio visual designer.

La tecnica che Tcheng documenta è quella dell’ “imprimé chaîne”, dove il filo viene stampato prima della tessitura, al fine di creare motivi ispirati a quelli del pittore astratto Sterling Ruby, un procedimento che sembra stridere con le parole di Dior che Tcheng monta alternativamente alla vita dell’atelier nel 2012, e che ritraggono lo spirito di un uomo apparentemente conservatore: “Non intendevo rivoluzionare la moda. Sono un reazionario, il che non vuol dire che io sia un retrogado […] amo solo pochi amici fidati, detesto l’agitazione moderna e il cambiamento improvviso

Eppure, la continuità della Maison abita proprio in quella tensione invisibile e complementare tra conservazione e innovazione, perché se Simons rappresenta la spinta creativa pura e incompromissoria, la direzione di Catherine Riviere riconduce tutto alla terra con un equilibrio vitale per mandare avanti la missione Dior.

Quando infatti Monique Bailly, premiere dell’atelier, prende improvvisamente un aereo diretto a New York  per ascoltare le lamentele di una cliente insoddisfatta e mollando il lavoro sulla collezione, Tcheng ci mostra il contrasto tra l’intransigenza di Simons e il pragmatismo della Riviere, consapevole del fatto che una cliente capace di spendere 350,000 euro per ogni stagione ha la stessa importanza di una collezione, perché consente alla Maison di investire in ricerca ed eventi.

La stessa traccia che collega il passato al futuro della Maison, non si percepisce solamente nelle dichiarazioni di intenti della nuova squadra, tra tutte, quella di Pieter Mulier, braccio destro di Simons che parla chiaramente di una libertà creativa possibile solamente entro un codice già stabilito da Dior, ma anche dal percorso che Simons compie per presentare la collezione dell’inverno 2012.

Tcheng riesce a rendere tangibile tutta la crescente tensione emotiva che coinvolge l’atelier, sovrapponendo il pensiero di Christian Dior a quello di Simons e facendo risuonare il rifiuto dell’agitazione moderna del fondatore con la refrattarietà di Simons all’esposizione mediatica; un debutto che non risparmia le lacrime.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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