lunedì, Dicembre 23, 2024

Disconnect di Henry Alex Rubin: intrappolati nella rete

Comincia bene il film d’esordio del giovane Henry Alex Rubin, Disconnect è in parte un ravvicinato close-up ad altezza monitor che osserva un processo di mutazione virale nel suo farsi. Non è sottilmente teorico come The Social Network o estremo come Wasted on the young nel contaminare addirittura l’architettura materiale del set, ma senza rimanere in superficie come Superstar di Xavier Giannoli ha la forza di innestare nel sistema relazionale e affettivo la prassi della rete coinvolgendo una serie di aspetti tra cui la fragile liminalità dei confini identitari che è possibile sperimentare, a volte senza accorgersene, nella pratica quotidiana della condivisione di informazioni digitali.

Facendo completamente a meno di quell’intelligneza ingombrante e insopportabile del già citato film di Giannoli,  Rubin riduce la distanza focale isolando volti, tastiere, caratteri e visualizzando il testo digitato in sovrimpressione, con una presenza grafica che non sempre diventa “segno” come in All About Lily Chou-Chou; il risultato è semplicemente funzionale ma regge molto bene nella frammentazione soggettiva che Rubin insegue lavorando sulla moltiplicazione del punto di vista. E’ interessante come l’istantaneità dell’informazione condivisa sui social network, la sua verificabilità, quel passaggio sottile tra mistificazione e verità nell’utilizzo di identità false, la clonazione di dati sensibili, le chat a sfondo sessuale, la condivisione di foto private, minacci dall’interno proprio la costruzione di un film corale tradizionalmente inteso; Rubin frammenta, confonde, collega e e allo stesso tempo sconnette in una monade i personaggi , la rete personale che li collega tra di loro testimonia un’intrusione violenta dei social network nella gestione delle relazioni anche minime, una presenza-assenza impalpabile, volatile.

In questo senso più dello sguardo dolente sulla deriva dell’informazione digitale che minaccia la sicurezza dei minori, il regista Americano sembra interessato per buona parte del film a mantenersi distante da un giudizio di natura morale cercando di seguire il ritmo diseguale e auto-generativo della rete, mondo freddo che si rivela in forma isolazionista o collettiva (è la stessa cosa in fondo), invece di veicolare una possibile re-invenzione degli stessi processi in forma  connettiva, ovvero per creare nello scambio, un nuovo elemento creativo e positivo.

La visione di Rubin è oscura, senza uscita e filma la pervasività dei dispositivi (hard disk, smartphone, tablet) come prolungamento negativo e aggressivo dello spazio quotidiano. E’ una sensazione che si conferma nell’ultima parte del film, quando il gioco della coralità cerca forzatamente degli incastri, forse più dalla parte del buonismo ecumenico di Inarritu che da quella di Paul Haggis, come in furibondo copia e incolla tutta la stampa (non esente dai processi virali) ha pigramente tirato in ballo. Fuori dai “drome” digitali, i personaggi cominciano a sfiorarsi, ritrovano l’importanza del gesto e della presenza, ma se si pensa a quel ralenti che in spazi diversi unisce tutti i personaggi e rende coesistenti gesti di violenza che a poco a poco si trasformano in segni d’amore, c’è l’impressione che Rubin non sapesse come uscirne tanta è l’insistenza retorica sul contenuto del messaggio invece che sul processo di propagazione dell’informazione.

Disconnect, pur mantenendo una forza disgiuntiva e frammentaria notevole quasi sino in fondo, ricombina questi elementi con l’ossessione che tutto debba tornare al suo posto, in una disconnessione vera e propria da qualsiasi fuori-rete (o fuori campo) possibile, quello che nel notevole Contagion di Soderbergh, sovvertiva improvvisamente le nozioni di tempo e di spazio, con una sola immagine.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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