Chissá se la scelta della Berlinale di aprire il festival con un film dedicato agli anni piú dolorosi nella vita di Django Reinhardt non faccia parte di quel lungo processo di riparazione storica che individuava un primo punto fermo nell´inaugurazione del Denkmal für die im Nationalsozialismus ermordeten Sinti und Roma, battezzato da Angela Merkel durante l´ottobre del 2012. Etienne Comar, produttore discontinuo ma di una certa sensibilitá, tratteggia le caratteristiche incompromissorie del grande musicista di etnia Sinti nella parigi del 43 occupata dai Nazisti. L´individualismo di Reinhardt emerge esplicitamente e anche attraverso alcuni gesti minimi, per diventare progressivamente resistenza politica.
In questo senso, l´idea di affidare i primi dieci minuti del suo film alla velocitá e al ritmo, promettono e non mantengono, perché avrebbero potuto rappresentare un tentativo interessante per evitare qualsiasi rischio retorico.
Si entra direttamente e anche aspramente nel fuoco inesauribile di una cultura libera per poi perdere completamente la strada nella norma di un biopic fortemente caratterizzato dalla descrizione bozzettistica.
Del tutto paradigmatica la sequenza in cui le restrizioni naziste sulle influenze blues nel virtuosismo di Reinhardt vengono violate dalla performance del chitarrista Sinti, trasformando la serata alla presenza della gerarchia militare in un´orgia dei sensi che individua nella musica una forza pericolosa e demoniaca.
Comar ridicolizza l´iconografia nazista forzando movimenti e volti in una direzione slapstick, esattamente come il montaggio dei cinegiornali di propaganda che compare all´inizio del film, trainato dal parossismo del jazz manouche.
É una strategia abusata e facilissima con la quale il regista e produttore francese non riesce a raggiungere lo spirito di un suono, elemento accessorio per un film che non riesce quasi mai a sfruttare gli stimoli apolidi di una cultura del viaggio.
Non é un caso che il progetto piú riuscito su Reinhardt sia del tutto inafferrabile e irriducibile tra i confini di un´opera definita.
Ossessioni Alleniane a parte, le meno interessanti e quelle piú assimilabili alle macchiette del film di Comar, é tutto il cinema di Tony Gatlif, anche quello meno riuscito, ad essersi avvicinato allo spirito “gadjo” del Jazzista nato in Belgio. Da Latcho Drom al flamenco di Vengo, da Gadjo Dilo a Transylvania, fino al piú esplicito Swing, lo spirito di Reinhardt si manifesta come una flanerie innominabile, un suono che vola sull ´immagine assumendone il riflesso e l´essenza.