Downsizing segue l’evolversi delle vicende che riguardano Paul Safranek (Matt Damon), un uomo ordinario di Omaha che, insieme alla moglie Audrey (Kristen Wiig), cerca una via di uscita dai problemi della quotidianità. La crisi mondiale è senza freni ed un equipe di scienziati norvegesi decide di sviluppare una soluzione che permetta di rimpicciolire gli essere umani a pochi centimetri d’altezza. Le persone presto scoprono che i loro risparmi valgono di più in un mondo più piccolo e, con la promessa di uno stile di vita lussuoso oltre ogni loro aspettativa, Paul e Audrey decidono di correre il rischio di sottoporsi a questa pratica controversa, prendendo una decisione irreversibile che muterà il corso delle loro vite.
Sul filone degli eventi legati ad individui ordinari che vengono stravolti dall’imprevisto stra-ordinario, Alexander Payne non smentisce la formula abituale presente nel suo cinema, realizzando un film che si costruisce e decostruisce come una matrioska con le proprie fragilità.
Nella distopia di un pianeta che ha esaurito le proprie risorse, l’uomo sembra essere il primo bersaglio delle proprie politiche sbagliate e l’aumento demografico inarrestabile la causa e diffusione della povertà, in una stretta relazione tra popolazione e risorse disponibili.
Qui lo sguardo sulla teoria malthusiana che, tra freni preventivi (controllo sulle nascite) e freni repressivi (guerre, carestie, catastrofi naturali) va oltre l’analisi demografica e sociologica per insinuarsi in un campo ben più minato come quello morale, rimanendo alla larga da una riflessione più complessa sull’immagine, il tempo e la tecnologia.
Se i riferimenti al cinema di fantascienza e al fantastico sono forti (senz’altro il cinema anni ‘50 di Jack Arnold, tra alienità ed esseri diversi) lo sono altrettanto quelli al fiabesco mondo di Stevenson dove la dimensione avventurosa de “I Viaggi di Gulliver” ricorre come d’altronde quelle al distopico e paradossalmente realistico universo creato dalla mente di Rod Sterling con “Twilight Zone”.
“Downsizing” si fa contenitore di tutti questi stimoli alla stessa maniera di “Elysium, il film diretto da Neill Blomkamp, facendo degli aspetti politici un’apparente affermazione critica: dalla parodia dell’Obama Care sino a quella della recente politica Repubblicana, Payne sceglie una via fin troppo evidente e didascalica.
Se l’ironia dissacrante di certe gag funziona per la dirompenza dei gesti e dei volti di Christoph Waltz e Udo Kier, pare che questo sia l’unico elemento di traino valido nel film, lontano dai corpi e dal gioco, svilendo il tutto con l’apologo morale di una prospettiva artificiale preordinata, sia nella costruzione del set sia negli intenti, lasciando ben poco spazio di replica a chi osserva e senza che ciò che viene sottoposto a critica (la società dei consumi, non v’è dubbio) venga prima di tutto vissuto.
Un “difetto di fabbrica” che potrebbe essere lo stesso di certi film costruiti, nel vero senso del termine, sulle stesse premesse, da “Gattaca” a “Truman Show”, dove l’involucro della distopia contiene già in nuce tutti gli elementi di una critica sociale ben definita e senza sorprese. Nel cinema di Payne in particolare, le scelte di un paradigma, dal racconto di formazione al viaggio on the road, esercitano una pressione troppo forte su tutto il resto, senza che si traducano in esperienza.