Ogni cosa si deve concludere e Julian Fellowes lo sa. Sei stagioni, cinquantadue episodi, quattordici anni racchiusi in una narrazione che preservasse il sistema sociale inglese. «Dio è monarchico!» esclama con entusiasmo Lady Mary, Downton Abbey è pronta a ricevere Re Giorgio V e la consorte.
Una lettera è in viaggio, proprio come all’inizio della serie, quando nelle mani di Lord Grantham fu consegnato un telegramma, informava che tutti i suoi eredi erano annegati sul Titanic, dopo quindici anni il contenuto pur sconvolgente è meno drammatico. Re e regina soggiorneranno nella dimora per una notte durante il loro tour nello Yorkshire. Intrighi e travagli romantici dominano lo stressante svolgersi di una giornata. I turbamenti assillano tutti, servitù e padroni. Fellowes e Michael Engler sanno enfatizzare quel perfetto meccanismo di sottotrame che impegna ogni personaggio nel suo ruolo.
Un maggiordomo prepotente che si aspetta di piegare un orgoglioso team di lavoratori, un aspirante assassino che non intende abbandonare la fede repubblicana e un’eredità contestata che sul campo vede schierate due attrici inglesi, Maggie Smith come l’imperiosa e machiavellica Violet Crawley e Imelda Staunton, dama di compagnia della regina. I colpi di scena si susseguono con un sospetto traditore, un amante geloso, uno chef snob, una ladra ricattata, un omosessuale perseguitato e un’anima morente
.
Ogni primo piano sembra quasi uno scatto fotografico che introduce il personaggio, rassicurando così lo spettatore fan, in una cornice sempre più sontuosa dove i costumi realizzati da Anna Robbins risplendono con il loro scintillio.
Downton è sempre in piedi, solida e immobile e gli aristocratici che la abitano brillano come gemme imperfette la cui umanità prevale sulla lealtà dovuta alle tradizioni e alle regole imposte dalla società. Una visione irrealistica che però si allinea all’illusione di come vorremmo che i reali si comportassero.
Non c’è critica ma solo status quo, in fondo come ultimo atto è soddisfacente, perché rispetta le aspettative e concede un happy ending degno di un progetto come “Downtown Abbey”, la cui abilità, come dice Katherine Byrne, acuminata autrice di “Edwardians on Screen: From Downton Abbey to Parade’s End”, è quella di confezionare un passato che non è mai esistito e di renderlo piacevole. Aspetto che ha già impostato una cornice specifica nelle recenti produzioni della ITV britannica, molte delle quali incentrate sulla vita e i costumi dell’upper class.