Albert “Alby” Falzon, fotografo e regista cresciuto a Sidney in Australia, diceva che fare Surf si adattava perfettamente alla prassi del cinema, perchè l’avanzare di un Surfista su un’onda è simile a quello della pellicola azionata da un proiettore.
Falzon, nel 1972, girava un film seminale per la comprensione storica del Surf nella sua evoluzione popolare e industriale; “Morning of the Earth“, pur arrivando sei anni dopo un titolo sostanzialmente performativo come “Endless Summer” di Bruce Brown, ha un duplice valore, è uno dei primi film che procede effettivamente alla velocità dei Surfers, entrando nella loro vita, viaggiando lungo la costa a nord-est dell’emisfero Australe, fino a toccare le Hawaii e catturando la vita di una comunità ancora in comunione con la natura, che progetta le proprie tavole e cerca ossessivamente l’onda perfetta, ma è anche l’opera di un fotografo al lavoro, che con il suo occhio soggettivo introduce nel racconto cinematografico lo sguardo itinerante dei numerosi reporter che inseguivano questi atleti ancora liberi dall’industria, catturando footage e registrando immagini quasi al loro livello percettivo. Per farsi un’idea ad altre latitudini e avvicinarsi a questo approccio “tattile” basterà guardarsi in rassegna gli scatti del californiano Jeff Divine, forse uno dei maggiori fotografi Americani tra quelli che hanno dedicato la loro vita al Surf.
Drift, il film co-diretto dall’attore Australiano Morgan O’Neill insieme a Ben Nott, è filologicamente molto vicino a quegli scatti e all’esperienza di “Morning of the Earth“, tanto da assorbirne l’aura, le ambientazioni, la ricostruzione di tutta l’ingenuità “hippie” degli anni a cavallo tra i 60 e i 70, certe scelte cromatiche sparatissime, molto simili alla stampe dello stesso Divine, incluse le foto fatte ai furgoni colorati con motivi psichedelici e sopratutto, il ruolo filosoficamente centrale di JB, il personaggio del fotografo interpretato da Sam Worthington, un possibile Alby Falzon, che non a caso nel film di Nott-O’Neill, contribuirà a trasformare un racconto di vita proletaria in un dispositivo iconico e mitologico.
Ambientato lungo la costa occidentale dell’Australia, Drift punta sin da subito alla forma del dramma famigliare, con questa fuga dalla violenza paterna, verso la forza positiva del mare; Kat Kelly (Robyn Malcolm) porta via i suoi due figli, Jimmy (Xavier Samuel) e Andy (Myles Pollard) nel tentativo di offrir loro una vita migliore; i due, legati al Surf fin da giovanissimi, si faranno strada mettendo su un piccolo laboratorio a conduzione famigliare, dove costruiranno tavole di nuova concezione e cuciranno mute su misura; si uniranno al team JB (Sam Worthington), un fotografo itinerante che gira con il suo equipaggiamento di macchine e piccole camere stagne per la fotografia subacquea e Lani (Lesley Ann-Brandt) una ragazza al seguito che di li a poco farà coppia fissa con Andy.
Con questa configurazione, Drift è prima di tutto un piccolo racconto di formazione che trova il suo centro nell’ostinata ricerca di una coesione famigliare anche attraverso scelte non convenzionali, tanto che la figura di Andy è quella che cerca di mantenere, rispetto all’anarchia creativa del fratello, il centro di un progetto che ruota intorno all’affetto per la madre, la propria terra, le proprie radici, mentre per esempio JB, conferma ad ogni scelta la sua natura visionaria e in costante movimento.
Ed è probabilmente questa struttura, per certi versi vicina a certi prodotti televisivi anni ’70, che impedisce al film di diventare qualcosa di più di un’onesta ricostruzione storica legata ad una specifica comunità culturale; anche le immagini con un alto potenziale di emotività vengono semplicemente assimilate alla forza autonoma degli scenari naturali che fanno quasi tutto il lavoro, perchè la prassi di JB non diventa quasi mai un corpo a corpo con l’acqua e i Surfisti, tanto che le uniche immagini a distanza ravvicinata svelano il trucco di quella che è ovviamente l’evoluzione tecnologica attuale; basterà guardarsi quel piccolo documentario “fotografico” ambientato alle Hawaii che è “Fiberglass and Megapixels” per trovare la stessa qualità “tecnica” delle immagini a cui spesso Drift ricorre, venendo meno ad una ricerca vera e propria dell’istante o di una particolare “flagranza”.
Il film di Nott-O’Neill ha una precisione tutta oleografica nella ricostruzione storica, e il ricorrere ad un occhio tecnico così esplicito, sorte l’efetto di amplificare questa distanza falsificante, perdendo l’occasione di realizzare un film sulla follia visionaria dei “surf photographers” di quegli anni.