Anche se Due amici ha il tono di una commedia melodrammatica che riesce a provocare risate cerebrali grazie a momenti di comicità quasi slapstick, il suo cuore appartiene alla malinconia dei drammi sentimentali. Per quanto cosparso di sfoghi gioiosi l’esordio registico di Louis Garrel infatti è rotto da una commozione che buca la virtualità comica e frustra la narrazione leggera. Si capisce bene dal trattamento che il regista-attore riserva ai suoi personaggi principali, i due amici assurdi e buffi che sembrano usciti da una pantomima simpatica e invece sono due individui in difficoltà: a mollo nella precarietà della loro situazione economica, fragili oltre che apatici perché stritolati da un mondo-gabbia di insicurezze.
Garrel ci mostra quanto Vincent (Vincent Macaigne) e Abel (Garrel) siano scollati dalle personalità spensierate che vorrebbero essere mettendo in contrasto una direzione del linguaggio del corpo e del charachter design versata nell’ingenuità bohemienne e una scrittura che fa emergere sempre i sismi emotivi. Se fossero realmente personaggi comici semantizzerebbero la realtà con le loro azioni, convertendola in un teatro, invece sono fratturati dalla tristezza e quindi semantizzano il contesto con la commozione.
E i due sono commoventi perché affogano negli amori invisibili da cui non riescono a slegarsi, o meglio, nell’invisibilità dell’amore che non riescono a comprendere. Sono incapaci di esprimere la verità sulle relazioni a cui sono intrecciati e si sfibrano sotto al peso di una abitudinaria amicizia che forse non ha più significato, costretti a un equilibrio di forze che non vedono e da cui non riescono a liberarsi.
Il regista sembra conoscere sulla pelle sia questo discorso emotivo sia la difficoltà di esprimerlo; cerca quindi di cogliere l’entità e la forma di questo sentimento amicale nella rappresentazione cercando di rompere l’impossibilità percettiva dell’invisibile con la rottura dell’equilibrio originario. L’immagine in negativo, il fantasma, la filigrana prima in controllo sono così spezzati da un elemento altro, un “tertium datur” contrario alle regole capace di rendere visibile e comprensibile la natura viziata della relazione grazie a una tesi controfattuale presente in forma di donna: se i due amici si innamorassero della stessa donna sarebbero ancora amici?
L’arrivo, il trascinamento volontario, inconscio quasi, di Mona (Golshifteh Farahani) – detenuta in libertà vigilata – nella vita dei due scardina l’ordine prestabilito e mette in moto la messa in scena complessiva e le varie messe in scena che i personaggi attraversano come comparse durante il film.
Nella continua rappresentazione finzionale pertanto, nel set dentro alla vita, tutto l’invisibile diventa visibile dal regista che assume la posizione sulla sedia direttiva e dispone i personaggi in un moto confessionale continuo: le maschere alla presenza della donna misteriosa e incomprensibile cadono, vengono rivelati i rimossi e rilasciati i segreti. Si complica così il flusso di corrente comprensivo fatto di taciti tra i due amici grazie all’entrata in scena della finzione rivelatrice del cinema, almeno fino a un finale che intelligentemente si chiude con la ricomposizione dell’equilibrio iniziale.
Il sentimento prorompente dell’amore (la finzione drammaturgica che giustifica lo spettacolo) viene negato, il cinema viene negato, perché altrimenti dovrebbe proseguire senza limiti: i due amici esistono drammaturgicamente solo quando messi in crisi. Quando Mona esce dalla loro vita, i due rientrano nell’anti-narrazione in cui continuano a mentirsi, comprendendosi.
Tornando invisibili.