Sandra (Marion Cotillard) ha un singolare week end da trascorrere, due giorni e una notte durante i quali a piedi, in autobus, in auto accompagnata dal marito, batterà senza tregua le strade assolate di una periferia svuotata di vita, suonerà campanelli di palazzoni anonimi, raggiungerà bar fumosi da dopolavoro alcolico e campi di calcetto di polisportive domenicali, non mancherà neanche una lavanderia a gettone lungo il suo itinerario, e fino a tarda sera non avrà soste. La mattina della domenica riprenderà la strada in una marcia estenuante, defatigante, sembra non farcela ad ogni passo, ma poi butta giù un sorso d’acqua e un altro Xanax per darsi forza, e via di nuovo.
Sandra deve provare a convincere entro due giorni quindici colleghi della fabbrica di pannelli solari in cui lavora a rinunciare ad un bonus di mille euro per permetterle di non perdere l’impiego.
Il padrone l’ha promesso in cambio del loro voto a favore del suo licenziamento.
Sandra ha ottenuto che il lunedì si ripeta la votazione, la collega sindacalizzata l’ha spinta a farsi avanti e il padrone l’ha concesso, forse per un residuo di umanità o forse perché sicuro del risultato.
Sandra sta uscendo da un periodo difficile. Depressione, esaurimento nervoso, disturbi d’ansia, le diagnosi sono presto fatte, ci si può assentare dal lavoro per ragioni varie, e tutte valide, ma il risultato è sempre lo stesso, la perdita del posto.
Pare infatti che, lavorando diverse ore in più, i colleghi siano riusciti a coprire il fabbisogno della fabbrica, dunque perché non licenziarla per guadagnare di più loro? Inoltre, reduce da una patologia del genere, che garanzie di efficienza potrebbe fornire sul lavoro?
Per non farla troppo sporca il padrone e il suo braccio destro (banale attualizzazione del termine Kapò) hanno fatto democraticamente votare tutto lo staff, previa promessa del bonus.
Questo è lo scenario, di crudeltà sconcertante, come solo i Dardenne riescono a confezionare con tratti brevi, sguarniti di ogni retorica e vibrazione polemica, lasciando il registro espressivo rigorosamente all’interno del tono medio. Nulla che non sembri normale amministrazione, vita al passo due, quello della quotidianità atona, cruda, indifferente.
Senza soprassalti emotivi espliciti, Cotillard è magistralmente capace di far leggere tutto negli occhi, nel viso esangue, tirato, dove le lacrime sono rigettate indietro e appare a tratti un sorriso debole.
Sandra è una donna forte e fiaccata, il suo calvario è fatto di piani sequenza che si susseguono in un ripetitivo andirivieni da un collega all’altro, di risposte a volte dure, a volte ipocrite, poche volte solidali, i mille euro sono una manna, per l’università della figlia, per il terrazzo da costruire sul retro, perché lavora solo uno in casa e i soldi non bastano, perché oggi anche mille euro possono far decidere del destino di una persona.
Sandra ripete a tutti la stessa cosa, non vuole perdere il lavoro, ne ha bisogno, ha due figli, ma il suo tono è sommesso, capisce le motivazioni di vario genere del rifiuto e si allontana ogni volta in silenzio, perché la sua lotta per la sopravvivenza non ha bisogno di molte parole.
Sandra ci ricorda da vicino la grande Rosetta degli esordi dei Dardenne. Come lei è una perdente indifesa, per entrambe c’è un suicidio mancato e una mano gentile che si tende. Il ragazzo del motorino per Rosetta, il marito per Sandra.
Eppure le due donne sono molto diverse e non può che essere così. Rosetta, quindici anni dopo, non è più la ragazzotta un po’ selvatica e aggressiva che vive in roulotte, vuole “un lavoro vero” e lotta con le unghie e con i denti per averlo, che ha l’energia di un torello quando si tratta di trascinare sul letto la madre alcolista strafatta o trasportare la bombola piena di gas per il mancato suicidio.
Ora Sandra è una donna estenuata, scarnificata dalla vita, ha una famiglia da cui sembra lontana, chiusa com’è nel bozzolo del male oscuro che l’ha colpita e da cui le circostanze della vita non l’aiutano certo a venir fuori.
Sandra è figlia di un tempo diverso da quello di Rosetta, anche se sono passati solo quindici anni.
E’ il prodotto di una delusione storica, il suo male trascende la sua storia personale, è il vuoto, il senso di impotenza di un’era che sforna come cloni figure come la sua, svuotate di energia vitale perché deprivate delle più basilari ragioni del vivere associato.
Quello che le accade trascina il tempo all’indietro di almeno due secoli, ai prodromi di una rivoluzione industriale segnati da arbitrio, sfruttamento, servilismo e individualismo esasperato.
Grande l’abilità dei Dardenne nel rendere l’ésprit du siécle servendosi di un eroe (eroina) diegetico di perfetto impatto empatico. La sofferenza, la determinazione mista a frustrazione, il senso di impotenza e il bisogno di non mollare fanno di Sandra l’amica, la collega, la sorella che vorremmo perché il suo dolore è il nostro, è il tratto più nero di una società che ha smarrito i suoi fondamenti etici.
I Dardenne sanno però lasciare aperta l’opera, non è il contentino buonista, è la vita che non ha finali, solo brevi pause per riprender fiato.
Deux jours, une nuit è stato selezionato come candidato belga al premio Oscar 2015 per il miglior film straniero.