Tra i pochi film diretti da Rob Schneider, il suo primo vedeva la luce dopo che il comico cresciuto sotto i riflettori del Saturday Night Live si allontanava dal percorso condiviso con Adam Sandler e la sua Happy Madison (Deuce Bigalow – puttano in saldo, Cinque volte il primo bacio, Gli scaldapanchina).
Big Natan impiegava lo stesso Schneider nei panni di un riccastro condannato ad alcuni anni di carcere e costretto a rivolgersi alle conoscenze di un bizzarro David Carradine per imparare tutti i segreti preliminari e necessari alla sopravvivenza dietro le sbarre.
Con Get Hard, Etan Cohen, già sceneggiatore per Barry Sonnenfeld, Mike Judge e per il Ben Stiller di Tropic Thunder approda al primo film sulla lunga distanza con una sceneggiatura che ha più di un riferimento con quella scritta da Josh Lieb per il film di Schneider, ritagliandolo su Will Ferrell, anche lui venuto fuori dalla fucina del Saturday Night Live, parte del “Frat pack” insieme a Ben Stiller, Jack Black, Vince Vaughn, Steve Carell, Owen e Luke Wilson ma soprattutto attore feticcio di Adam McKay. Cohen preleva molta più linfa dalle commedie di McKay (qui sceneggiatore aggiunto) che non dalla breve parabola di Schneider come autore, cercando di recuperare la forma ipertrofica delle gag e quella scorrettezza furibonda che nel cinema del regista di Filadelfia funziona come un vero e proprio sabotaggio interno a tutti i clichè del genere.
Ma ad eccezione di alcuni momenti che mettono al centro proprio Ferrell, tra cui il pompino omoerotico nel cesso con tanto di membro inquadrato di sfuggita, la relazione con i domestici ispanici, l’ingresso nella gang all black, la performance delirante di Ferrell insieme a John Mayer e le scopate tra James King (Ferrell) e la moglie, sembra che Cohen non riesca a bilanciare bene lo scambio di energia tra l’attore e il suo compare Kevin Hart con cui condivide il cinquanta per cento della scena, attardandosi in lungaggini poco convincenti come tutta la pantomima che Hart mette in piedi interpretando quattro personaggi contemporaneamente per simulare la dura vita del carcere. Questione di ritmo e improvvisazione, quest’ultima alla base di molti film di McKay e qui ripresa senza una reale capacità di gestione.
In questo senso, tutti i tentativi di farne una commedia con uno sfondo razziale evidente, giocando a rovesciare cinicamente ed esplicitamente il cinema politico di John Singleton per cambiarne le istanze entro la deriva di una percezione stereotipata della cultura afro-americana con cui giocare in due direzioni diverse, rimane un’intuizione superficiale come i continui riferimenti alla mitologia di Boyz n the Hood.