Vincitore alla Quinzaine di Cannes 2015, El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra ha guadagnato per la prima volta al suo Paese, la Colombia, la nomination all’Oscar come miglior film straniero.
Quello che attrae fino alla fascinazione di questo lungo viaggio amazzonico, fotografato in un magnifico bianco e nero da David Gallego lungo i fiumi Inirida e Varupes, è la sua assoluta verginità, l’indipendenza da antesignani illustri, quei grandi maestri del racconto di viaggio, fotografi famosi, etno-antropologi di chiara fama, scrittori e registi che hanno fatto dell’Amazzonia uno dei luoghi più esplorati al mondo (e ben afferma Herzog quando dichiara nel suo breve Ten Thousand years older, in Ten minutes older, the trumpet : “Nel mondo non ci sono più popoli o luoghi sconosciuti…” ).
L’Amazzonia di Ciro Guerra riesce ancora ad aprirsi come luogo del mistero, serbatoio di lingue sconosciute e di simboli indecifrati, territorio attraversato da popoli di cui non resta nessuna memoria.
Nilbio Torres (il giovane Karamakate), Antonio Bolívar (il vecchio Karamakate) e tutti i suoi attori sono indigeni parlanti lingue scomparse, Cubeo, Wanano, Tikuna e Uitoto.
Lungo le correnti di quei fiumi, risalendo le sponde e addentrandosi nel fitto della foresta, scalando quelle alture che s’impennano improvvise fra le mangrovie, la macchina si muove lenta registrando i suoni della natura e inquadrando lussureggianti gallerie di verde, acque ora stagnanti ora ribollenti, rapide e cascate che le snelle imbarcazioni dei due esploratori superano silenziose e veloci.
El abrazo de la serpiente è il racconto liberamente ricostruito dalle memorie di Theodor Koch-Grünberg (Jan Bijvoet) e Richard Evans Schultes (Brionne Davis), un etnologo tedesco ed un biologo statunitense che affrontarono l’Amazzonia in tempi diversi con scopi diversi.
Trent’anni li separano, nel 1909 si colloca la storia del primo che, vecchio e malato, non tornò più in Germania; negli anni Quaranta quella dell’altro, giovane e con qualche ideale in meno.
Nei diari dei due scienziati rimasero memorie importanti di culture assediate e già allora avviate al triste destino che oggi, a distanza di quasi un secolo, verifichiamo con dolorosa impotenza.
Guerra muove la sua macchina fra gli orrori, gli abusi, la pertinace violazione del diritto alla vita inflitta dall’uomo bianco alla nuda innocenza di quei popoli.
Nei tableaux vivants che si materializzano nel giro di brevi sequenze, c’è la storia di secoli di sopraffazione scritta nelle tribù decimate, asservite al delirio del pazzo di turno che si crede Gesù o al sadismo di monaci che insegnano il Vangelo a suon di frustate.
Cortecce di alberi secolari, violate dalle incisioni dei raccoglitori di caucciù, sgocciolano la loro linfa preziosa nei secchielli raccolti da schiavi miserabili che invocano la morte quando l’alternativa è la mutilazione di qualche pezzo del proprio corpo per non aver raccolto il quantitativo giornaliero, la foresta che il regista attraversa è un corpo malato allo stadio terminale, luogo di collisione dove impera un senso profondo di tragedia.
Ma il suo sguardo va oltre il puro dato documentario e non diventa racconto morale.
Guerra costruisce sul corpo e sulla storia dei tre protagonisti un autentico poema sonoro e visivo, allestisce un teatro in cui vita e morte sono termini di un’epopea che supera i confini di tempo e spazio per esplorare i territori del sogno e del mito. Nel suo straordinario protagonista, lo sciamano senza più memoria e arti magiche, Karamakate, Guerra incarna la condanna degli dei contro la protervia degli uomini.
Moderno Prometeo, Karamakate tenta fino alla fine di donare agli uomini quel fuoco che li salverebbe, ma l’uomo disprezza le leggi divine, la sua sconfitta è inevitabile e scritta fin dalla sua nascita.
Karamakate è giovane e fiero nella prima parte del film. Unico sopravvissuto della sua gente, l’etnia Cohiuano, è depositario di un sapere ancestrale che l’uomo bianco non sa rispettare e i suoi simili stanno dimenticando (straziante, anche se perfino comica, la sequenza del furto della bussola dell’esploratore da parte di un capo tribù che non capirà più, d’ora in poi, quel linguaggio del cielo e delle stelle che conosceva così bene!).
Suo è l’incontro, in tempi diversi, con i due scienziati che lasciarono diari della loro esperienza nel contatto con popoli di cui si è persa ogni traccia.
Karamakate fu guida per entrambi alla ricerca della yakruna, una pianta rara dalle proprietà allucinogene e terapeutiche che all’anziano e malato Theo avrebbe riportato le forze, a Schultes denaro.
Theo morì in Amazzonia senza più rivedere la sua terra e la famiglia, Schultes non ottenne la yakruna, prezioso elemento naturale purificatore del caucciù, che Karamakate distrusse nel suo ultimo esemplare quando capì le vere intenzioni dell’uomo.
Karamakate era vissuto isolato dal mondo da quando la sua gente era stata decimata. Quando incontrò Schultes era anziano e privo di memoria, un chullachaqui, un guscio vuoto senza emozioni e ricordi, un uomo inutile in un mondo alienato.
Guerra sceglie di sovrapporre i piani temporali raccontando in parallelo i due incontri.
L’incrocio chiastico di giovinezza e vecchiaia produce un effetto straniante di ineluttabilità, quasi che nulla possa opporsi al destino di morte che grava su uomini e cose.
Violate le sacre leggi della natura, dimenticato il suo linguaggio e distrutte le sue risorse, restano solo vuoto, pazzia e morte.
Karamakate, vecchio e silenzioso, conduce Schultes fino alla sacra pianta che cresce spontanea nell’Officina degli Dei, recuperando la memoria lungo il percorso. Sarà doloroso per lui constatare l’inutilità di quella sapienza perduta e riconquistata, e le fiamme saranno l’epilogo inevitabile.
“Non dimenticate chi siete e da dove venite, fate che il nostro canto non svanisca ” era stato l’appello accorato di Karamakate alla sua gente, ma il conflitto tra i due mondi non ha avuto vincitori, solo vinti.
Resta la musica di Haydn, La creazione, inattesa presenza nelle profondità della foresta, che si propaga dal vinile portato fin là da Schultes e messo sul vecchio grammofono salvato chissà come dalle rapide.
E’ il linguaggio che unisce i due uomini in quella notte silenziosa, mentre il vecchio, triste Karamakate guarda il cielo e chiede a Schultes:
“E’ a questo punto che l’anaconda scende dalla Via Lattea portando i nostri antenati? ”.