Escape Room è un concept movie convinto dell’autosufficienza delle proprie intenzioni, rinserrato nell’emisfero dei prodotti sintonizzati sulla frequenza delle mode contemporanee, chiuso nella prevedibilità e nella predeterminazione di un’identità editoriale limitata dalle sue stesse premesse. È la storia di sei persone diverse per carattere e provenienza, unite da un determinante elemento comune presente nella vita di tutte e attirate in un gioco a camere chiuse apparentemente normale, molto immersivo e in realtà mortale. Un nuovo racconto su persone costrette al reciproco massacro, nel dichiarato solco di Saw e della tendenza di orientare la paura cinematografica sulla spinta di un filone concettuale potenzialmente remunerativo, perché legato all’esperienza extra diegetica degli spettatori e a una proiezione di mercato attenta al crescendo di un’attività reale (la frequentazione delle escape room). Peccato si tratti di un tentativo mancato di esplorare un soggetto stringato passando attraverso i codici del genere del terrore.
Il film diretto da Adam Robitel è infatti tanto vicino alla riproposizione degli stereotipi dell’horror quanto lontano da una riuscita teorizzazione visiva della paura insegnata dai capolavori del genere stesso. L’azione non è trattata come l’espressione di un significato in movimento, non è l’atto di sintesi psicologica dei caratteri degli individui o elemento portatore di senso e non risulta un vettore utile per l’esplicitazione della storia o dell’arco drammatico dei personaggi: è piegata su se stessa, occlusa in una visione in cui l’interesse è indirizzato solo verso il gusto spinto per un design degli interni, per un’estetica della scenografia paurosa, per il susseguirsi di idee da barzelletta a denti stretti materializzate in stanze costruite come enigmi tridimensionali. Nessuna delle soluzioni meccaniche del film basta a spaventare o a suscitare una qualche forma di ammirata meraviglia: l’osso scenico non è sinonimo di minimalismo ma effetto di una evidente carenza di idee e di una altrettanto visibile assenza di contenuti validi.
Non c’è una riflessione coerente sul concetto di sopravvivenza, non c’è una soluzione formale per trasmettere lo stato d’ansia della claustrofobia, non è colta la potenzialità di un film su una camera chiusa e sul rapporto tra individuo e spazio in una contemporaneità ormai composta esclusivamente da spazi logici e fisici a forma di scatole. Sarebbe stato interessante assistere a un horror in grado di tematizzare attraverso la resa formale le sfumature di un preciso e paradossale desiderio umano: quello di chiudersi in uno spazio per testare la propria capacità, contraddicendo la tensione dell’istinto di sopravvivenza e esaltando invece l’auto alimentazione della paura, del gioco pericoloso e del terrore. Escape Room è invece incapace di leggere nella profondità della propria idea principale, e si dimostra un prodotto facilmente dimenticabile, tanto interessato alla dilatazione delle proprie limitate intuizioni (il sequel è già in cantiere) quanto assente nello sviluppo delle stesse.